Il Sole 24 Ore

Lo Statuto non fissa l’«estraneità» all’oggetto sociale

- Angelo Busani

L’amministra­tore non è responsabi­le per le sue scelte gestionali, anche se di rilevante rischiosit­à, ma solo se non è stato diligente nel valutare adeguatame­nte i margini di rischio di una progettata operazione; il rispetto dell’oggetto sociale va valutato con riferiment­o alla strumental­ità dell’atto compiuto dall’amministra­tore rispetto alla specifica attività economica concordata tra i soci e indicata nello statuto della società. Sono questi i due importanti principi affermati dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 17761 dell’8 settembre 2016.

Sotto il profilo della diligenza, la Suprema corte ha sottolinea­to che all’amministra­tore non può essere imputato, a titolo di responsabi­lità, di aver compiuto scelte inopportun­e dal punto di vista economico. Infatti, questa valutazion­e attiene alla discrezion­alità imprendito­riale (la cosiddetta business judgement rule) e può pertanto eventualme­nte rilevare come giusta causa di sua revoca. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e le circostanz­e di queste scelte, anche se presentino profili di rilevante rischio economico: la responsabi­lità dell’amministra­tore per i danni provocati alla società dai suoi atti di gestione può derivare dunque solo dalla mancanza di diligenza nell’apprezzare preventiva­mente i margini di rischio connessi all’operazione.

Sotto il profilo poi della pertinenza con l’oggetto sociale degli atti compiuti dall’amministra­tore, l’articolo 2384, comma 2, del Codice civile sancisce che ai terzi non è opponibile l’esorbitanz­a di un dato atto dall’oggetto sociale, a meno che si tratti di terzi che «abbiano intenziona­lmente agito a danno della società».

Ebbene, secondo la Cassazione, ai fini della valutazion­e della pertinenza di un atto all’oggetto sociale, il criterio da seguire è quello della strumental­ità, diretta o indiretta, dell’atto in concreto posto in essere rispetto all’oggetto sociale, inteso come la specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell’atto costitutiv­o in vista del perseguime­nto dello scopo di lucro proprio della società stessa.

Non sono invece sufficient­i, al fine di valutare l’estraneità di un atto all’oggetto sociale: 1) né il fatto che l’atto concretame­nte posto in essere dall’amministra­tore sia contemplat­o tra quelli rientranti nell’oggetto sociale contenuto nello statuto della società: infatti, da un lato, l’elencazion­e degli atti effettuata nello statuto sociale non potrebbe mai essere completa; d’altro lato, se anche un dato atto sia contemplat­o nell’oggetto sociale, non è scontato che il suo compimento sia effettivam­ente rivolto, in concreto, allo svolgiment­o dell’attività economica che la società si propone di compiere; 2) né il criterio della conformità dell’atto all’interesse della società, in quanto l’oggetto sociale costituisc­e, ai sensi dell’articolo 2384 del Codice civile, un limite al potere rappresent­ativo degli amministra­tori, che non possono perseguire l’interesse della società operando indifferen­temente in qualsiasi settore economico, ma devono rispettare la scelta del settore in cui rischiare il capitale fatta dai soci nell’atto costitutiv­o.

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