Lo Statuto non fissa l’«estraneità» all’oggetto sociale
L’amministratore non è responsabile per le sue scelte gestionali, anche se di rilevante rischiosità, ma solo se non è stato diligente nel valutare adeguatamente i margini di rischio di una progettata operazione; il rispetto dell’oggetto sociale va valutato con riferimento alla strumentalità dell’atto compiuto dall’amministratore rispetto alla specifica attività economica concordata tra i soci e indicata nello statuto della società. Sono questi i due importanti principi affermati dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 17761 dell’8 settembre 2016.
Sotto il profilo della diligenza, la Suprema corte ha sottolineato che all’amministratore non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico. Infatti, questa valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale (la cosiddetta business judgement rule) e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e le circostanze di queste scelte, anche se presentino profili di rilevante rischio economico: la responsabilità dell’amministratore per i danni provocati alla società dai suoi atti di gestione può derivare dunque solo dalla mancanza di diligenza nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione.
Sotto il profilo poi della pertinenza con l’oggetto sociale degli atti compiuti dall’amministratore, l’articolo 2384, comma 2, del Codice civile sancisce che ai terzi non è opponibile l’esorbitanza di un dato atto dall’oggetto sociale, a meno che si tratti di terzi che «abbiano intenzionalmente agito a danno della società».
Ebbene, secondo la Cassazione, ai fini della valutazione della pertinenza di un atto all’oggetto sociale, il criterio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, dell’atto in concreto posto in essere rispetto all’oggetto sociale, inteso come la specifica attività economica (di produzione o scambio di beni o servizi) concordata dai soci nell’atto costitutivo in vista del perseguimento dello scopo di lucro proprio della società stessa.
Non sono invece sufficienti, al fine di valutare l’estraneità di un atto all’oggetto sociale: 1) né il fatto che l’atto concretamente posto in essere dall’amministratore sia contemplato tra quelli rientranti nell’oggetto sociale contenuto nello statuto della società: infatti, da un lato, l’elencazione degli atti effettuata nello statuto sociale non potrebbe mai essere completa; d’altro lato, se anche un dato atto sia contemplato nell’oggetto sociale, non è scontato che il suo compimento sia effettivamente rivolto, in concreto, allo svolgimento dell’attività economica che la società si propone di compiere; 2) né il criterio della conformità dell’atto all’interesse della società, in quanto l’oggetto sociale costituisce, ai sensi dell’articolo 2384 del Codice civile, un limite al potere rappresentativo degli amministratori, che non possono perseguire l’interesse della società operando indifferentemente in qualsiasi settore economico, ma devono rispettare la scelta del settore in cui rischiare il capitale fatta dai soci nell’atto costitutivo.