L’America cresce più del previsto: Pil +3,2%, record da due anni
La very special relationship anglo-americana, ammaccata nella sua versione tradizionale, prova a rinascere, quantomai eccentrica, attorno alla voglia di discontinuità. Il superamento dello status quo ideologico, delle relazioni internazionali, dei rapporti commerciali è elemento emergente dell’indirizzo politico già intrapreso da Londra e di quello che Washington minaccia di adottare. La dottrina comune sui due lati dell’Atlantico si gioca attorno allo “strappo” dalle rispettive tradizioni. Rottura col presente, nonostante le regole immaginate per la vita che verrà siano solo occasionalmente coincidenti, spesso divergenti, talvolta ostili come l’intesa Trump-Farage suggerisce.
Gli slogan che hanno fatto vincere la Brexit, issando Theresa May a Downing Street, sono assimilabili – in British style, alleggerriti delle volgarità - a quelli sventolati da Donald Trump. Parole d’ordine nazionaliste e autarchiche echeggiano fra i brexiters in misura appena inferiore a quelle che hanno accompagnato il neo presidente Usa alla vittoria. La liberazione dalle manette – per usare la parole d’ordine del populismo d’antan – delle grandi comunità politico-economiche (Ue, nel caso di Londra) e di quelle commerciali (Nafta, nel caso di Washington) è comunicata con toni simili. “Britain First” – “Usa First” evocano un’idea di primato globale con destini diversi. Washington può aspirare a mantenerlo. Londra s’illude di averlo ancora. L’arroganza di uscite pubbliche - «vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca» – care al ministro Boris Johnson e riapparse sul “memo” dedicato alla Ue visto nelle mani di un negoziatore di Downing Street sottendono la percezione di una condizione di centralità planetaria che Londra ha perduto nella notte dei tempi. La trattativa sulla Brexit sarà la dolorosa presa di coscienza di un ruolo nel mondo radicalmente mutato.
Nella Gran Bretagna di Theresa May, in libera uscita dalla Ue, negli Usa in marcia verso l’era Trump si assiste alla cesura netta con la tradizione del passato di Tory e Repubblicani. Il populismo ha occupato i mainstream parties. Lo si era visto con i Tea parties americani, ma il fenomeno è ora evidente a Londra. Anestetizzata da un sistema elettorale che non fa prigionieri e non consente a forze nuove di emergere, la Gran Bretagna assiste alla trasformazione della politica attraverso la mutazione di Labour e Tory. Il primo è ormai nelle mani di un radicalismo d’altri tempi incarnato da Jeremy Corbyn, il secondo accarezza sempre più l’idea di seppellire Margaret Thatcher. La volontà di Theresa May di riformare il capitalismo, annunciata mesi fa e resa realtà concreta con il Green Paper illustrato ieri ai Comuni è un altro mattone su ciò che resta fra i Tory della tradizione thatcheriana. Tradizione che non poteva contemplare neppure l’idea di dare ai lavoratori forme di controllo sulle retribuzioni dei manager, se non altro per il timore di ridare voce a quelle Unions che la Thatcher aveva combattuto senza tregua. Gli “abusi del capitalismo” denunciati da Theresa May sono, sia chiaro, una realtà sancita dalla cronaca, non un’invenzione. Le modalità allo studio per risolverle sono, invece, nuove, una lacerazione rispetto all’approccio dei conservatori. È il tentativo della risposta politica al malcontento dei ceti popolari, esemplificato nel “no” all'Europa.
La discontinuità nel Regno Unito nasce dall’esigenza di adeguarsi alle istanze che hanno fatto vincere Brexit, la discontinuità negli Usa è stata la fuga per la vittoria. Theresa May ha già cominciato ad agire, resta da vedere se Donald Trump farà davvero quanto va proclamando.