Le armi spuntate del Cartello (e soprattutto di Riad)
Sui mercati del petrolio non pochi operatori si pongono da settimane le stesse domande: perché dare per certo un accordo tra i Paesi membri dell’Opec finalizzato a un taglio produttivo quando alla vigilia del vertice sono ancora tante le divisioni? E anche se questo taglio venisse deliberato, chi garantirebbe poi che, come altre volte, non rimanga lettera morta?
La caduta delle quotazioni petrolifere avvenuta ieri ha riflesso con efficacia lo scetticismo che prevale sui mercati. D’altronde i precedenti non depongono a favore dell’Opec.Innanzitutto perché la mancanza di disciplina nel rispettare i tetti produttivi è forse il punto più vulnerabile del Cartello. In secondo luogo perché, comunque vada,restano ancora troppi nodi da sciogliere. E su alcuni punti l’Opec non esercita alcuna influenza. Non è peraltro indifferente che, in un periodo in cui i produttori esterni al Cartello hanno ripreso a estrarre di più, la riduzione produttiva vista fino a poche settimane fa come la panacea di tutti i mali potrebbe avere un effetto limitato.
Uno dei maggiori ostacoli è la posizione della Russia. Mosca ha ribadito che non si allineerà ad alcun taglio produttivo. Piuttosto opterà per un congelamento ai livelli attuali. Quasi una provocazione. Perchè la produzione russa sta viaggiando a livelli record, che non si vedevano dai tempi dell’Unione Sovietica. Il contributo di Mosca, potenza petrolifera esterna all’Opec, per ridurre l’attuale eccesso di offerta è di fatto nullo. Altri produttori esterni all’Opec puntano perfino a incrementare l’estrazione. Se poi ci si addentra nell’intricata tela dei rapporti tra i membri dell’Opec,fino a ieri i dissensi erano ingombranti.Iran e Iraq non intendono adeguarsi a un taglio. Al limite - questa la loro proposta - l’Iraq congelerà la sua estrazione - peraltro a livelli record - e l’Iran intenderebbe aumentarla fino a riconquistare la sua quota di mercato - mutilata negli anni delle sanzioni - e poi potrebbe congelarla all’inizio del 2017.
Per evitare di perdere la faccia, il Cartello potrebbe finalizzare all’ultimo un accordo posticcio, pieno di incognite, ma pur sempre un accordo. Ma resta un dato di fatto. Questa volta la linea saudita non sembra far presa. Né all’interno del Cartello, né all’esterno. Che Mosca e Riad abbiano interessi geopolitici divergenti,se non opposti, è risaputo. D’altronde le loro relazioni non sono mai state idilliache. Riad, tuttavia, non vuole cedere sulla politica dei tagli. Al di là di Libia e Nigeria, Paesi in evidenti diffi- coltà produttive e perciò esentati dai tagli, la linea è la stessa perseguita da mesi: o tutti o nessuno.
Riad non sta attraversando un periodo facile.I suoi budget sono in crescente deficit.E per colmarli sta attingendo alle sue grandi riserve valutarie, che tuttavia si stanno erodendo troppo in fretta. Complice il suo sistema di contratti decisamente poco flessibile, nei primi 10 mesi ha perso quote di mercato nel sempre più strategico mercato dell’Asia. In Cina è stata la Russia ad approfittarne, divenendo primo fornitore di Pechino.In India sono stati Iraq, Iran e Angola, tutti più inclini a vendere sul mercato spot.Se Riad tagliasse l’estrazione, senza che altri produttori la seguano,la sua quota di mercato si ridurrebbe ulteriormente. Un simile ragionamento deve aver fatto breccia nella mente del mi-
SAUDITI IN DIFFICOLTÀ Che si tagli o no, l’Arabia sembra aver perso la scommessa contro l’industria Usa dello shale oil
nistro dell’Energia, Khalid al-Falih. Perché la sua dichiarazione - domenica - appare in controtendenza ai disegni che Riad cerca di realizzare da un anno. «Ci aspettiamo una domanda incoraggiante nel 2017 e il mercato ritroverà un equilibrio anche senza interventi dall’Opec. Non penso che i vertici dell’Opec abbiano un solo percorso tracciato, ossia tagliare la produzione. Penso che mantenerla ai livelli attuali sarebbe giustificabile».
L’Opec pare prigioniera di un dilemma. Le cui soluzioni sono comunque sfavorevoli. Se i prezzi salissero a beneficiarne sarebbe prima di tutti l’industria americana dello shale oil. Che ha costi di produzione decisamente più alti, ma che è stata capace di resistere alle basse quotazioni degli ultimi due anni e sarebbe pronta a crescere se il barile tornasse intorno ai 55 dollari. O forse anche meno. Ma se il barile cadesse sotto i 40 dollari sarebbero guai per tutti i Paesi Opec, da sempre petro-dipendenti.
C’è un altro fattore da non trascurare: Donald Trump. Il neopresidente Usa ha da tempo illustrato il suo progetto: rendere gli Stati Uniti energeticamente indipendenti. La sua agenda passa per un deciso alleggerimento delle restrizioni all’industria dei combustibili fossili. Mossa che si ripercuoterebbe positivamente sull’industria dello shale oil. L’Opec pare davvero avere le armi spuntate.