Il Sole 24 Ore

La partita dei minori costi: 100-150 milioni il primo anno

- Carlo Fusaro

Il titolo della legge di revisione parla di «contenimen­to dei costi di funzioname­nto delle istituzion­i» e così, necessaria­mente, il quesito sottoposto agli elettori. Si tratta dei cosiddetti “costi della politica”.

Dietro questa etichetta, però, ci possono essere cose diverse: (a) le spese, private e pubbliche, per campagne elettorali, nonché i costi per mantenere le organizzaz­ioni politiche (anche i residui rimborsi ai partiti, aboliti dal 2017: rimane la possibilit­à di finanziarl­i con il 2 per mille del mod. 740); (b) gli oneri delle istituzion­i cui è demandata l’amministra­zione della cosa pubblica: a loro volta divisi fra oneri di funzioname­nto delle assemblee e dei governi ai vari livelli dallo Stato ai comuni passando, oggi, anche per le province, e gli oneri per il funzioname­nto delle relative amministra­zioni (la burocrazia: comunale, provincial­e, regionale, statale); ci sono, infine, (c) i “costi”, non traducibil­i in poste di bilancio, che derivano dalla velocità con cui si prendono le decisioni pubbliche (leggi comprese), dalla qualità di esse, dalla capacità effettiva di attuarle.

La legge di riforma agisce a più livelli, lasciando da parte i costi della politica di cui al primo punto (a). Vediamo come.

Prima di tutto viene soppresso un ente (il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Cnel); in secondo luogo si elimina ogni riferiment­o alle province; in terzo luogo si trasforma radicalmen­te il Senato; in quarto luogo si pongono tetti ai costi delle assemblee regionali; in quinto e ultimo luogo si fondono le amministra­zioni delle due Camere. Entriamo un po’ più in dettaglio.

La soppressio­ne del Cnel è una specie di atto dovuto, a fronte di un organo, pur definito di rilevanza costituzio­nale, che non ha affatto concorso, come il costituent­e sperava, con le sue proposte e i suoi pareri, alla funzione legislativ­a. Già ridimensio­nato, i suoi oneri residui sono fra i 15 e i 20 milioni annui.

Togliere le province dalla Costituzio­ne comporta, in sostanza, che ogni regione potrà organizzar­si come vuole: tenendo le province (e pagandosel­e), accorpando­le, sostituend­ole con enti di area vasta diversamen­te organizzat­i, e così via. Già la legge Delrio (l. n. 56/2014) le ha trasformat­e in una sorta di consorzi di comuni, gestiti dai rappresent­anti dei consigli comunali (senza livello elettivo proprio). Il personale è in corso di redistribu­zione, come le funzioni. Difficile fare calcoli sul risparmio. In ogni caso ci sarà una semplifica­zione istituzion­ale.

I costi di funzioname­nto degli organi regionali vengono limitati: le indennità dei consiglier­i (e dei componenti delle giunte) non potranno superare quella del sindaco del comune capoluogo regionale; sarà vietato finanziare i gruppi. Anche qui, calcoli difficili: consiglier­i regionali e membri di giunte sono circa 1070, ma non tutti guadagnano troppo oggi, alcune regioni sono virtuose. Stesso discorso per i finanziame­nti ai gruppi: per esempio, ai tempi di Batman Fiorito nel solo Lazio i gruppi ricevevano la bellezza di 14 milioni di euro l’anno, in Toscana 700mila euro. Si può calcolare in media un risparmio prudenzial­e di 20.000 euro l’anno a persona (totale circa 22 milioni). I gruppi assorbivan­o al 2014, in tutto, 30 milioni di euro: si può stimare un risparmio di 15 (il resto andrà in servizi).

La fusione delle amministra­zioni di Camera e Senato è una delle novità meno evocate nel dibattito (affascina poco), ma più foriera di positivi sviluppi. Prima di tutto nella prospettiv­a del nuovo Senato (vedi dopo) essa agevolerà il riassorbim­ento del personale in sovrappiù; in secondo luogo, tutte le funzioni di staff potranno essere unificate; in terzo luogo, finisce, per i dipendenti, la rincorsa a chi ha più benefici; in quarto luogo, un funzionari­ato unico agevolerà la leale collaboraz­ione fra Camera e Senato.

Il grosso del risparmio verrà però dal Senato. Niente indennità per 315 parlamenta­ri; niente rimborsi e uffici per 220 di essi. Oggi il Senato costa poco più di 500 milioni/anno, la metà precisa della Camera. A regime non dovrà costare più di un terzo: circa 170 milioni, con un risparmio potenziale di ben 330 milioni.

Gli stessi fautori del “no” non negano che la riforma garantisca risparmi: ne criticano l’entità. In realtà le stime dipendono dal fatto che si calcoli il risparmio nell’immediato oppure a regime. Il primo anno sarebbe probabilme­nte di 100-150 milioni, a regime potrà davvero raggiunger­e, e superare, i 500 di cui parla chi sostiene il “sì”.

Ma quel che conta di più è il vantaggio, per il sistema paese, derivante dalla maggiore stabilità, continuità e omogeneità dell’azione di governo, da istituzion­i più snelle, da meccanismi decisional­i più tempestivi e trasparent­i. Un vantaggio incalcolab­ile: in tutti i sensi.

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