Gli appetiti di Pechino, le asimmetrie con Bruxelles
La Cina sta inglobando innovazioni e brand high-tech occidentali a un ritmo e su una scala senza precedenti per ottenere le conoscenze che le consentano di trasformarsi in un’economia industriale avanzata. Nei primi nove mesi di quest’anno ha annunciato acquisizioni per 191 miliardi di dollari. La Ue è la principale destinazione di questa strategia espansiva. Tanto che, in luglio, l’European political strategy center della Commissione europea ha proposto di adottare un meccanismo comune di difesa simile al Committee on foreign investment americano per impedire l’assorbimento di industrie e tecnologie strategiche per la crescita.
In Europa l’appetito cinese è cresciuto in particolare verso le imprese tedesche: al punto che in Germania circa il 35-40% degli investimenti esteri in entrata (10,8 miliardi di dollari) nei primi sei mesi di quest’anno è giunto da Pechino, motivo per cui Berlino ha deciso di bloccare per ragioni di sicurezza nazionale l’ultima operazione tentata su Aixtron.
Le lampanti asimmetrie fra la Cina, uno degli stati del G20 più chiusi agli investimenti esteri, e i Paesi occidentali portano a chiedersi se possa esserci effettiva reciprocità fra uno stato autoritario-nazionalista e democrazie industrializzate aperte. Di fatto, le imprese occidentali non hanno alcuna chance di comprare un’importante industria cinese, di Stato o privata, in un settore protetto e considerato riservato.
Benché anche quest’anno la Cina viaggi verso l’obiettivo fissato dal governo di una crescita al 6,5-6,7% – trainata dagli investimenti immobiliari e dai progetti infrastrutturali (+19,4% da gennaio) sostenuti dall’espansione del credito e della spesa pubblica – l’attuale modello di crescita cinese è giunto al limite. Sebbene il debito dello Stato centrale sia il 44% del Pil (rispetto a circa il 100% negli Usa e nella Ue), nondimeno il private corporate debt è fra i più elevati al mondo (assai più alto di quello americano ed europeo) e, soprattutto, beneficia di garanzie im- plicite ed esplicite dello Stato.
Pechino si trova pertanto a dover riallocare le sue risorse dai settori produttivi con eccesso di capacità (acciaio, costruzioni navali, immobiliare e manifattura di base, tutti legati a questo pattern) a settori con servizi e consumi nei quali l’innovazione tecnologica è strategica.
Per decenni le democrazie occidentali hanno perseguito una politica di coinvolgimento con Pechino, sicure che la prosperità economica e l’apertura commerciale avrebbero condotto a un sistema politico più liberale. Ma con la recente proclamazione di Xi Jinping “core leader” del partito, si è tornati alla politica dell’“uomo forte” dopo un breve periodo di leadership basata sul consenso. Democrazia e valori universali sono stati per ora rigettati.
Il rifiuto di Pechino di permettere investimenti stranieri in molti settori della sua economia dovrebbe, perciò, essere debitamente valutato insieme ai suoi tentativi di acquisire all’estero industrie strategicamente rilevanti. I governi occidentali e, innanzitutto, quelli europei dovrebbero capire che indebolirsi l’un l’altro, nel tentativo d’ingraziarsi Pechino, è miope quanto controproducente. Il Partito comunista cinese non ragiona in termini di valori universali. Né una riforma delle istituzioni economiche internazionali per coinvolgere la Cina può comportare la rinuncia alla fermezza su regole, politiche e standard di queste istituzioni.
Per ora la Cina è divenuta ricca senza divenire democratica. La storia, innanzitutto quella del Celeste impero, insegna che difficilmente un Paese con un sistema autoritario può guidare un’economia prospera e aperta. E oggi Pechino ha avviato un nuovo imponente esperimento politico che, sfruttando le chance offerte dal libero mercato, può trasformare il suo impressionante potere economico in una egemonia globale autoritaria.