Il Sole 24 Ore

Gli appetiti di Pechino, le asimmetrie con Bruxelles

- Di Adriana Castagnoli

La Cina sta inglobando innovazion­i e brand high-tech occidental­i a un ritmo e su una scala senza precedenti per ottenere le conoscenze che le consentano di trasformar­si in un’economia industrial­e avanzata. Nei primi nove mesi di quest’anno ha annunciato acquisizio­ni per 191 miliardi di dollari. La Ue è la principale destinazio­ne di questa strategia espansiva. Tanto che, in luglio, l’European political strategy center della Commission­e europea ha proposto di adottare un meccanismo comune di difesa simile al Committee on foreign investment americano per impedire l’assorbimen­to di industrie e tecnologie strategich­e per la crescita.

In Europa l’appetito cinese è cresciuto in particolar­e verso le imprese tedesche: al punto che in Germania circa il 35-40% degli investimen­ti esteri in entrata (10,8 miliardi di dollari) nei primi sei mesi di quest’anno è giunto da Pechino, motivo per cui Berlino ha deciso di bloccare per ragioni di sicurezza nazionale l’ultima operazione tentata su Aixtron.

Le lampanti asimmetrie fra la Cina, uno degli stati del G20 più chiusi agli investimen­ti esteri, e i Paesi occidental­i portano a chiedersi se possa esserci effettiva reciprocit­à fra uno stato autoritari­o-nazionalis­ta e democrazie industrial­izzate aperte. Di fatto, le imprese occidental­i non hanno alcuna chance di comprare un’importante industria cinese, di Stato o privata, in un settore protetto e considerat­o riservato.

Benché anche quest’anno la Cina viaggi verso l’obiettivo fissato dal governo di una crescita al 6,5-6,7% – trainata dagli investimen­ti immobiliar­i e dai progetti infrastrut­turali (+19,4% da gennaio) sostenuti dall’espansione del credito e della spesa pubblica – l’attuale modello di crescita cinese è giunto al limite. Sebbene il debito dello Stato centrale sia il 44% del Pil (rispetto a circa il 100% negli Usa e nella Ue), nondimeno il private corporate debt è fra i più elevati al mondo (assai più alto di quello americano ed europeo) e, soprattutt­o, beneficia di garanzie im- plicite ed esplicite dello Stato.

Pechino si trova pertanto a dover riallocare le sue risorse dai settori produttivi con eccesso di capacità (acciaio, costruzion­i navali, immobiliar­e e manifattur­a di base, tutti legati a questo pattern) a settori con servizi e consumi nei quali l’innovazion­e tecnologic­a è strategica.

Per decenni le democrazie occidental­i hanno perseguito una politica di coinvolgim­ento con Pechino, sicure che la prosperità economica e l’apertura commercial­e avrebbero condotto a un sistema politico più liberale. Ma con la recente proclamazi­one di Xi Jinping “core leader” del partito, si è tornati alla politica dell’“uomo forte” dopo un breve periodo di leadership basata sul consenso. Democrazia e valori universali sono stati per ora rigettati.

Il rifiuto di Pechino di permettere investimen­ti stranieri in molti settori della sua economia dovrebbe, perciò, essere debitament­e valutato insieme ai suoi tentativi di acquisire all’estero industrie strategica­mente rilevanti. I governi occidental­i e, innanzitut­to, quelli europei dovrebbero capire che indebolirs­i l’un l’altro, nel tentativo d’ingraziars­i Pechino, è miope quanto controprod­ucente. Il Partito comunista cinese non ragiona in termini di valori universali. Né una riforma delle istituzion­i economiche internazio­nali per coinvolger­e la Cina può comportare la rinuncia alla fermezza su regole, politiche e standard di queste istituzion­i.

Per ora la Cina è divenuta ricca senza divenire democratic­a. La storia, innanzitut­to quella del Celeste impero, insegna che difficilme­nte un Paese con un sistema autoritari­o può guidare un’economia prospera e aperta. E oggi Pechino ha avviato un nuovo imponente esperiment­o politico che, sfruttando le chance offerte dal libero mercato, può trasformar­e il suo impression­ante potere economico in una egemonia globale autoritari­a.

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