Il Sole 24 Ore

I produttori Usa di Shale Oil festeggian­o

- Di Roberto Bongiorni

Per i sauditi il boccone è indigesto. La guerra contro lo shale oil americano, dichiarata due anni fa, è stata persa. Riad aveva “aperto le ostilità” nel novembre del 2014, quando al vertice Opec di Vienna impose di lasciare inalterata la produzione nonostante l’eccesso di offerta e i prezzi in discesa da mesi. L’obiettivo ufficiale era mantenere la quota di mercato.Quello meno esibito, ma perseguito con determinaz­ione, era estromette­re dai mercati un concorrent­e sempre più pericoloso: lo shale oil americano. I costi di produzione di questo greggio non convenzion­ale, nonostante fossero scesi, erano ancora molto alti - in media attorno ai 60-70 dollari al barile.

Se teniamo le quotazioni molto basse per un po’- devono aver pensato i sauditi - noi soffriremo, ma loro scomparira­nno . Nel dicembre 2015, sempre a Vienna, Riad prevalse ancora questa linea. E il greggio nei mesi successivi galleggiav­a su una media poco superiore ai 42 dollari al barile, ben lontano dai livelli del periodo 2011-2014, quando era ampiamente sopra i 100 dollari.

Per la miriade di piccole compagnie americane specializz­ate nel fracking, tecnica di estrazione più inquinante oltre che più costosa, il 2015 ed il 2016 sono stati anni molto difficili. Con diverse aziende finite alla bancarotta, e molte costrette a ridurre le trivellazi­oni. Eppure in questo periodo di prezzi bassi, le compagnie di fracking hanno mostrato una resistenza inaspettat­a. Molte di loro hanno fatto di necessità virtù, ottimizzan­do le tecniche di estra- zione e migliorand­o l’efficienza. Così sono riuscite mediamente a ridurre i costi di estrazione del 40%, ma in alcune aree anche più del 50.

Verrebbe quasi da dire che i sauditi hanno fatto un doppio regalo all’industria dello shale oil americano. Prima l’ha costretta a migliorare l’efficienza, poi il taglio produttivo deciso mercoledì – 1,2 milioni di barili al giorno subito seguiti da un’impennata delle quotazioni petrolifer­e vicina al 10% – è arrivato come un regalo inaspettat­o per le compagnie di fracking. Pronte a riprendere le attività. Anche perchè nel giacimento di Bakken, tra i maggiori degli Usa, un prezzo internazio­nale di 45 dollari al barile è divenuto sufficient­e a generare profitti per diverse compagnie.

L’annuncio del taglio produttivo dell’Opec è stato così salutato da molte aziende operanti nel settore shale con incrementi a due cifre dei listini. La Whiting Petroleum, il principale produttore di shale nella ricca zona di Bakken, ha chiuso le contrattaz­ioni con un balzo del 30,3 per cento. A Wall Street la Devon Energy, che opera in Texas ed estrae 150mila barili al giorno (bg), ha registrato un un rialzo più “contenuto”: +14%. Quanto alla Eog Resources, numero uno americano dello shale oil con una media di 255mila bg, l’incremento si è fermato al 10 per cento, così come per Chesapeake Energy, attiva nell’Ohio. Concho Resources ha invece fatto +12%. I titoli che hanno realizzato le performanc­e migliori sono stati quelli delle aziende attive nelle zone dove i costi di produzione sono più bassi, come Williston, Permian, Eagle e Ford.

Vi sono infatti aree dove il migliorame­nto delle tecniche di estrazione e dei processi di efficienza produttiva si è distinto più delle altre. Alcune compagnie operanti a Permian si vantano addirittur­a di avere costi di produzione inferiori ai 30 dollari. La nuova frontiera è proprio il bacino di Permian, una distesa arida del Texas che lambisce il New Mexico, dove negli scorsi mesi sono stati scoperti giacimenti da 8 miliardi di barili. I texani amano definire questa terra “Saudi America” o “Texarabia”. Se l’accordo dell’Opec dovesse tenere - sostengono gli analisti - da Permian potrebbero essere riattivati 150 pozzi. D’altronde, dallo scorso maggio il 60% dei nuovi pozzi già sviluppati per estrarre greggio il 60% si trova proprio qui.

Questa è la storia dell’ultima rivoluzion­e energetica made in Usa. Che ha portato la produzione americana dai 4,5 milioni di barili al giorno (mbg) del periodo 2005-2007 (l’import superava i 10 mbg) agli 11 milioni di barili al giorno del 2015. Per la prima volta in 20 anni gli Stati Uniti producevan­o più di quanto importavan­o. E lo shale oil superava, per volume produttivo, il petrolio convenzion­ale. Una storia probabilme­nte destinata a continuare. Che piaccia all’Opec oppure no.

IL PESO DEL «TAGLIO» I sauditi hanno fatto un doppio regalo all’industria americana con l’efficienza e rendendo convenient­e la ripresa delle attività

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