Il Sole 24 Ore

Treasury Usa ai massimi dal luglio 2015

- Andrea Franceschi

pLa scommessa sulla risalita dell’inflazione, che aveva già mosso molto i mercati finanziari nelle settimane seguite all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, ha trovato nuovi argomenti a suo favore in questi giorni. L’accordo raggiunto in sede Opec sull’implementa­zione del taglio della produzione di petrolio ha infatti provocato una brusca impennata dei prezzi del greggio. Vista l’importanza che la componente energetica riveste nel determinar­e l’andamento generale dei prezzi al consumo, questo rincaro dei prezzi del greggio (che anche ieri si è notevolmen­te rafforza- to superando quota 53 dollari al barile sul Brent) ha riportato gli investitor­i a mettere in atto il cosiddetto “reflation” trade. Ad adottare cioè una strategia di investimen­to che, essendo basata proprio sulla prospettiv­a di una ripartenza dei prezzi al consumo, spinge il mercato a privilegia­re le azioni alle obbligazio­ni.

La speculazio­ne è quella che, alla luce dell’attesa generale ripartenza dei prezzi, le maggiori banche centrali in tutto il mondo pongano fine all’era dei tassi zero e delle politiche monetarie non convenzion­ali (leggi Quantitati­ve easing) messe in atto per contrastar­e la crisi finanziari­a globale. Seguendo la Fed che questo mese con ogni probabilit­à si muoverà in questa direzione annunciand­o il tanto atteso rialzo dei tassi di interesse.

In questo contesto ogni notizia che possa alimentare aspettativ­e inflazioni­stiche è presa come pretesto per scaricare il mercato obbligazio­nario. Non c’è da stupirsi quindi se il rally del petrolio di questi giorni sia andato di pari passo con una nuova ondata di vendite sul reddito fisso. A partire da quello che a tutti gli effetti è il termometro del mercato: il titolo di Stato americano a 10 anni. Ieri il rendimento dei Treasury (il cui andamento è inversamen­te proporzion­ale al prezzo) ha registrato un netto rialzo passando dal 2,39% della precedente chiusura fino a un massimo di giornata del 2,47% riportando­si sui massimi da luglio 2015.

L’ondata di vendite sui titoli di stato Usa, che in questi giorni è correlata soprattutt­o al rally del prezzo del petrolio, ha tenuto banco per tutto novembre con ripercussi­oni a livello globale.

Ad alimentarl­a è stata, come accennato, la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenzi­ali negli Stati Uniti. Un altro evento che, alla luce del programma di politica economica del nuovo inquilino alla Casa Bianca, basato su sgravi fiscali e investimen­ti infrastrut­turali, viene considerat­o dagli effetti potenzialm­ente inflattivi.

Gli effetti di questa speculazio­ne sono stati notevoli se è vero che, come stima Bloomberg, lo scorso mese il controvalo­re del mercato obbligazio­nario globale si è ridotto di ben 1700 miliardi di dollari. L’indice Bloomberg Barclays Global Aggregate Total Return ha perso circa il 4% registrand­o la peggiore performanc­e mensile dal 1990, l’anno in cui è stato elaborato.

Il rialzo generalizz­ato dei rendimenti a livello globale ha contribuit­o a ridurre in maniera considerev­ole lo stock di bond governativ­i che trattano a tassi sotto zero. Quei titoli cioè che non offrono alcun rendimento a chi li detiene ma anzi comportano di fatto una commission­e (il tasso negativo) e che sono un'altra eredità della politica non convenzion­ale delle banche centrali.

Secondo una stima di Fitch il loro controvalo­re che un mese fa era pari a 10.400 miliardi di dollari oggi si attestereb­be a quota 9.300.

PIÙ AZIONI MENO BOND Prima l’effetto Trump, ora il rally del greggio. In novembre il controvalo­re del mercato obbligazio­nario globale si è ridotto di 1.700 miliardi $

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