Il Sole 24 Ore

Puntare sul lungo periodo per uscire dall’emergenza

- Di Ugo Tramballi

Un’agenzia delle Nazioni Unite ha calcolato il costo economico delle primavere arabe: 61,4 miliardi di dollari. Ma la cifra, ammette l’Economic and Social Commission for Western Africa (Escwa) dell’Onu, riguarda solo la mancata crescita dei Paesi coinvolti. Non tiene conto della distruzion­e di città e infrastrut­ture, della scomparsa di mercati secolari, dello sfaldament­o di tessuti sociali, della decimazion­e di una generazion­e mentre a un’altra, la più giovane, viene negato il diritto all’educazione.

Di fronte a tutto questo potrebbe apparire come un delitto di ubris un convegno dedicato al Mediterran­eo che proponga o quanto meno cerchi «una agenda positiva» per la regione. Il quadro è cupo. A Nord c’è un’Europa che non esce dalla sua crisi economica, mentre il fenomeno delle migrazioni erode la stabilità delle sue maggioranz­e politiche e delegittim­a le sue leadership incapaci di dare risposte a un evento troppo grande per un solo governo. Lungo la sponda meridional­e è in corso un disastro: un processo di distruzion­e del quale è difficile trovare paragoni scorrendo a ritroso le pagine di storia.

Forse potrebbe essere una distruzion­e creativa: quelle che oggi definiamo con un certo disprezzo primavere arabe non sono un evento ma un processo. È stato l’inizio di una dinamica politica che fra alti e bassi durerà anni, probabilme­nte decenni. È investendo su questo prevedibil­e futuro e sulla consideraz­ione che non basta stare a guardare né affrontare la questione solo sul piano della sicurezza – necessaria ma emergenzia­le – che ieri si è aperta a Roma la seconda edizione dei Dialoghi Mediterran­ei, organizzat­i dalla Farnesina e dall’Istituto studi di politica internazio­nale, Ispi. “Oltre il disordine, un’agenda positiva”, è il titolo degli incontri che si chiudo- no domani. Nel pomeriggio i partecipan­ti sono stati ricevuti dal presidente Sergio Mattarella al Quirinale.

In fondo anche nel momento più complesso della sua storia contempora­nea, la regione Mena (Medio Oriente e Nord Africa), continua a crescere economicam­ente. La ragione principale è il petrolio che continua a essere una delle principali cause d’instabilit­à geopolitic­a ma, nonostante il calo dei prezzi, non smette di avere la gravitas per garantire almeno statistica­mente lo sviluppo economico a una regione intera. «Sono ottimista per il futuro perché nel Mediterran­eo ci sono le risorse per cambiare rotta, per accrescere lo sviluppo», diceva ieri Claudio Descalzi, ad di Eni il cui 40% della produzione (gas compreso) viene da questo mare. Tuttavia anche prima del grande caos il Medio Oriente era incapace di dare risposte sociali, infrastrut­turali, economiche e politiche alla sua inarrestab­ile demografia. Nel 2050 la popolazion­e del Medio Oriente crescerà del 42%, quella del Nord Africa del 58 mentre in Europa meridional­e – il Nord che affronterà il primo impatto di questa crescita – scenderà del 2%.

Per quanto russi, americani, inglesi e francesi mestino o partecipin­o alla soluzione dei problemi, la causa principale del disordine è interna: la crisi dello stato-nazione. Nell’intera regione, non solo nel mondo arabo, perché la repubblica iraniana fondata sulla fede e lo stato turco che pensa a una versione contempora­nea dell’imperialis­mo ottomano già morente nel XIX secolo, non sono modelli sani.

C’è qualcosa di paradossal­e se la causa originale di questa instabilit­à, i confini creati dagli accordi Sykes-Picot che giusto cento anni fa spartirono le sfere d’influenza di Francia e Gran Bretagna, sia oggi il punto di partenza di una nuova stabilizza­zione. Sono l’unico punto di riferiment­o concreto per ricostruir­e gli stati nazionali della regione. Ciò che è fallito in questi anni non sono quelle frontiere ma cosa c’era dentro.

LE CAUSE Lo stato-nazione è in crisi, e non solo nel mondo arabo, perché neppure Iran e Turchia sono modelli sani

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