Puntare sul lungo periodo per uscire dall’emergenza
Un’agenzia delle Nazioni Unite ha calcolato il costo economico delle primavere arabe: 61,4 miliardi di dollari. Ma la cifra, ammette l’Economic and Social Commission for Western Africa (Escwa) dell’Onu, riguarda solo la mancata crescita dei Paesi coinvolti. Non tiene conto della distruzione di città e infrastrutture, della scomparsa di mercati secolari, dello sfaldamento di tessuti sociali, della decimazione di una generazione mentre a un’altra, la più giovane, viene negato il diritto all’educazione.
Di fronte a tutto questo potrebbe apparire come un delitto di ubris un convegno dedicato al Mediterraneo che proponga o quanto meno cerchi «una agenda positiva» per la regione. Il quadro è cupo. A Nord c’è un’Europa che non esce dalla sua crisi economica, mentre il fenomeno delle migrazioni erode la stabilità delle sue maggioranze politiche e delegittima le sue leadership incapaci di dare risposte a un evento troppo grande per un solo governo. Lungo la sponda meridionale è in corso un disastro: un processo di distruzione del quale è difficile trovare paragoni scorrendo a ritroso le pagine di storia.
Forse potrebbe essere una distruzione creativa: quelle che oggi definiamo con un certo disprezzo primavere arabe non sono un evento ma un processo. È stato l’inizio di una dinamica politica che fra alti e bassi durerà anni, probabilmente decenni. È investendo su questo prevedibile futuro e sulla considerazione che non basta stare a guardare né affrontare la questione solo sul piano della sicurezza – necessaria ma emergenziale – che ieri si è aperta a Roma la seconda edizione dei Dialoghi Mediterranei, organizzati dalla Farnesina e dall’Istituto studi di politica internazionale, Ispi. “Oltre il disordine, un’agenda positiva”, è il titolo degli incontri che si chiudo- no domani. Nel pomeriggio i partecipanti sono stati ricevuti dal presidente Sergio Mattarella al Quirinale.
In fondo anche nel momento più complesso della sua storia contemporanea, la regione Mena (Medio Oriente e Nord Africa), continua a crescere economicamente. La ragione principale è il petrolio che continua a essere una delle principali cause d’instabilità geopolitica ma, nonostante il calo dei prezzi, non smette di avere la gravitas per garantire almeno statisticamente lo sviluppo economico a una regione intera. «Sono ottimista per il futuro perché nel Mediterraneo ci sono le risorse per cambiare rotta, per accrescere lo sviluppo», diceva ieri Claudio Descalzi, ad di Eni il cui 40% della produzione (gas compreso) viene da questo mare. Tuttavia anche prima del grande caos il Medio Oriente era incapace di dare risposte sociali, infrastrutturali, economiche e politiche alla sua inarrestabile demografia. Nel 2050 la popolazione del Medio Oriente crescerà del 42%, quella del Nord Africa del 58 mentre in Europa meridionale – il Nord che affronterà il primo impatto di questa crescita – scenderà del 2%.
Per quanto russi, americani, inglesi e francesi mestino o partecipino alla soluzione dei problemi, la causa principale del disordine è interna: la crisi dello stato-nazione. Nell’intera regione, non solo nel mondo arabo, perché la repubblica iraniana fondata sulla fede e lo stato turco che pensa a una versione contemporanea dell’imperialismo ottomano già morente nel XIX secolo, non sono modelli sani.
C’è qualcosa di paradossale se la causa originale di questa instabilità, i confini creati dagli accordi Sykes-Picot che giusto cento anni fa spartirono le sfere d’influenza di Francia e Gran Bretagna, sia oggi il punto di partenza di una nuova stabilizzazione. Sono l’unico punto di riferimento concreto per ricostruire gli stati nazionali della regione. Ciò che è fallito in questi anni non sono quelle frontiere ma cosa c’era dentro.
LE CAUSE Lo stato-nazione è in crisi, e non solo nel mondo arabo, perché neppure Iran e Turchia sono modelli sani