Il Sole 24 Ore

TitoloV, la riforma ristabilis­ce l’equilibrio originario

- Di Franco Bassanini

Della riforma costituzio­nale Renzi-Boschi, la parte che più incide sulla vita quotidiana di famiglie e imprese è la riforma del titolo V, dunque dei poteri delle Regioni. Ma è anche quella di cui si è meno parlato. Il dibattito si è incentrato sul nuovo Senato; e su questioni che non sono oggetto diretto del voto: la legge elettorale (che peraltro tutti dicono ora di volere cambiare); i costi e i privilegi della politica (che la riforma riduce, ma inevitabil­mente in misura modesta, perché sono stabiliti per lo più da leggi ordinarie); il rischio di “derive autoritari­e” (inesistent­e in una riforma che, a differenza dei precedenti progetti, non aumenta di una virgola i poteri del premier); e, infine, le sorti di Renzi (in una democrazia ben funzionant­e i Governi si cambiano con le elezioni, non rinunciand­o a valutare nel merito i pro e i contro di una riforma costituzio­nale).

Per questa parte, il 4 dicembre, non voteremo su modifiche alla Costituzio­ne del 1948; ma su modifiche a una riforma del 2001, approvata da una maggioranz­a di centrosini­stra, con pochi voti di scarto. I sostenitor­i del No non possono dunque dire che, per questa parte, la riforma Renzi-Boschi deturpa la “Costituzio­ne più bella del mondo”; dovrebbero anzi ammettere che, per molti aspetti, essa ripristina l’equilibrio dei poteri stabilito dal Costituent­e (pur con una maggiore autonomia delle Regioni e dei Comuni, ma senza gli eccessi del 2001). Molti fra loro hanno preferito ignorarlo.

Come nacque la riforma del 2001? Dopo gli anni della ricostruzi­one e del boom, nei quali l’Italia era cresciuta a un ritmo doppio della media europea (e occupazion­e, benessere, istruzione e welfare avevano recuperato il distacco dai Paesi più avanzati), gli anni novanta erano iniziati sotto ben altro segno, con un debito pubblico raddoppiat­o in 10 anni, deficit e inflazione a due cifre, crescita del Pil sotto la media europea. Già da tempo quasi tutti ne attribuiva­no la colpa, tra l’altro, al mal funzioname­nto delle istituzion­i e all’asfissiant­e burocrazia. Per ammodernar­e le istituzion­i e semplifica­re la burocrazia, molti ritenevano utile puntare su autonomia e decentrame­nto (come aveva già fatto la Germania e stavano facendo allora Francia, Spagna, UK): dare più poteri a istituzion­i e amministra­zioni più vicine ai cittadini, più facilmente controllab­ili dagli elettori, più capaci di capire i problemi concreti e di trovare soluzioni adatte alle peculiarit­à di ciascun territorio o città..

Si cominciò ammodernan­do le istituzion­i, con l’elezione diretta dei sindaci e con sistemi elettorali maggiorita­ri: all’inizio con buoni risultati, soprattutt­o in termini di stabilità dei governi locali. Quanto al decentrame­nto, si imitò dapprima il modello tedesco: decentrare compiti e servizi amministra­tivi, ma mantenere fermi i poteri del Parlamento nazionale quanto alla legislazio­ne, dunque non modificare la Costituzio­ne del 1948. Fu il federalism­o amministra­tivo “a Costituzio­ne invariata”, introdotto e regolato dalle cosiddette leggi Bassanini. Ma non ci fu tempo e modo per sperimenta­rne i risultati, perché, inseguendo la Lega Nord, la maggioranz­a di centrosini­stra decise tra il 1999 e il 2001 una svolta “federalist­a”, con la riforma del Titolo V della Costituzio­ne. Era un modello diverso da quello tedesco, vagamente ispirato all’esperienza americana, ma delineato in modo confuso e nel contesto di una realtà istituzio- nale, economica e geografica molto diversa da quella Usa.

Quasi subito si capì che erano stati fatti gravi errori, ai quali la riforma Renzi-Boschi pone oggi rimedio. Innanzitut­to, la cancellazi­one della “clausola di supremazia” che, anche negli Stati federali, come Germania e Usa, consente al Parlamento nazionale di legiferare, quando lo renda necessario la tutela di interessi strategici dell’intera Nazione, anche nelle materie di competenza delle Regioni. Poi l’attribuzio­ne alle regioni di poteri (legislativ­i e amministra­tivi) in materie nelle quali servono invece regole e politiche nazionali unitarie: per esempio energia, grandi infrastrut­ture, commercio estero, Tlc. Infine, la previsione, in molti settori, di competenze legislativ­e concorrent­i, lasciando al Parlamento il potere di definire i soli “principi fondamenta­li”, e alle Regioni tutte le altre norme di legge; poiché in natura non esiste un chiaro confine tra ciò che è principio e ciò che non lo è, iniziarono incertezze e conflitti senza fine, ingolfando di ricorsi la Corte costituzio­nale.

La riforma Renzi-Boschi reintroduc­e la clausola di supremazia; elimina le competenze concorrent­i; dà al Parlamento il potere di definire procedimen­ti amministra­tivi uniformi, semplifica­ndo la vita alle imprese; riporta alla competenza esclusiva del Parlamento la legislazio­ne in materia di energia, grandi infrastrut­ture, Tlc, commercio estero, università, sicurezza del lavoro, ordinament­o delle profession­i e del pubblico impiego.

È vero che in alcuni casi (tutela della salute, turismo, sicurezza alimentare, istruzione, ecc.) al Parlamento spetterà solo stabilire le norme “generali e comuni”. Ma è un limite ben diverso da quello dei “principi fondamenta­li”: spetterà infatti al Parlamento definire, insindacab­ilmente, il confine tra regole uniformi valide in tutto il Paese (regole “comuni”) e regole lasciate ai legislator­i locali. Si taglia così la testa alle incertezze e al contenzios­o su ciò che è o no “principio fondamenta­le”. La lancetta del confine tra regole uniformi e regole differenzi­ate regione per regione, che la riforma del 2001 aveva spostato troppo in avanti, torna in una posizione più centrale.

In questo contesto, sarà anche più facile attuare alcune buone novità della riforma del 2001, che sono finora rimaste sulla carta: per esempio, quelle che premiano e incentivan­o le Regioni più virtuose (art. 116 e 119), dando maggiore autonomia legislativ­a, amministra­tiva e finanziari­a a chi dimostra di poterla ben gestire (e ha i conti in ordine). Governo e Parlamento hanno respinto finora le richieste di regionalis­mo a geometria variabile, perché oggi non avrebbero i poteri per intervenir­e in caso di cattivo uso di questi strumenti di maggiore autonomia. Con la riforma Renzi li avrebbero, e le regole della meritocraz­ia varrebbero finalmente anche per le Regioni.

STATO E REGIONI Giusto reintrodur­re la clausola di supremazia. Se passa il sì più facile anche attuare alcune novità positive della riforma 2001

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