Il Sole 24 Ore

La disfatta di Renzi, il dilemma del Pd, l’avanzata di Grillo

- Di Lina Palmerini

Èla sconfitta di Renzi e dell’uno contro tutti. Cade la riforma costituzio­nale ma viene respinto soprattutt­o uno stile di leadership. Il premier lascia dopo aver cercato un’investitur­a popolare che gli mancava e che ieri non ha trovato. Ha vinto l’accozzagli­a - come la chiamava in campagna elettorale - ma quel “marchio” non è stato sufficient­e a convincere gli italiani a scegliere il Sì. Il fronte del No era un mondo variegato – è vero - ma c’è chi vince più degli altri: i 5 Stelle, la forza più corposa, più trasversal­e anche geografica­mente. Dopo Roma non si arresta la marcia di Grillo e si proietta già alle prossime elezioni nazionali. Ed è a loro che Renzi lancia la sfida del giorno dopo, quella di trovare una soluzione. Anche se il dilemma è tutto nel Pd.

Renzi ha tentato l’azzardo e come Cameron è stato battuto. Cade la “sua” Costituzio­ne ma viene travolta l’idea di cambiament­o che c’era dietro la sfida referendar­ia. La riforma era il “cuore” del suo Governo, quella che ha giustifica­to il suo arrivo a Palazzo Chigi, gli italiani – però - non hanno creduto al cambio di passo. All’appello è mancata quella maggioranz­a silenziosa su cui il premier contava, quella che ha sempre premiato la stabilità e che questa volta è rimasta indifferen­te alle conseguenz­e di un No. Anzi le ha cercate, dopo che il leader del Pd aveva messo in palio Palazzo Chigi.

A questo punto le dimissioni di Renzi non mettono al centro solo le sue mosse ma soprattutt­o quelle del suo partito. A parlare adesso sarà il Pd, partito di maggioranz­a in Parlamento, da cui dipendono le prossime scelte da portare al capo dello Stato. Il grande punto di domanda è cosa succederà dopo la disfatta renziana, se la maggioranz­a resterà con lui o se ci sarà un nuovo equilibrio tra le correnti di partito che hanno già alle spalle il tradimento dei 101, il Governo Letta poi scaricato, e ora questa nuova prova.

Il bivio non è semplice, per il Pd si tratta di scegliere ancora una soluzione senza un’investitur­a popolare e questo comporta notevoli rischi. Il ricordo recente dell’appoggio al Governo Monti e di come se ne sia pagato il prezzo con le elezioni 2013 peserà nella decisione dei prossimi passi. Ma peserà anche il senso di responsabi­lità di cui necessaria­mente si dovrà fare carico il partito di maggioranz­a. Contano i calcoli elettorali ma conta soprattutt­o quello che accadrà oggi sui mercati, sui titoli bancari. Questioni rimaste in sospeso proprio in attesa dell’esito referendar­io che ormai è scritto.

Il dilemma per il Pd sarà lacerante. Soprattutt­o per la pressione delle opposizion­i che su un nuovo Esecutivo non eletto faranno una campagna elettorale perenne. Quanto costerà ai Democratic­i in termini di consensi? Quanto gonfierà le vele al populismo? E soprattutt­o chi si assumerà l’onere – continuand­o la legislatur­a – di fare la prossima legge di Stabilità, quella che guarda alla scadenza elettorale del 2018? Questo sarà il rovello.

Prima ancora di fare una scelta sul segretario e sul congresso, c’è quindi una decisione più profonda sulla strategia politica del partito. Dare fiducia a un nuovo Governo che arrivi fino alla fine della legislatur­a comporta rischi altissimi, dovrà navigare anche tra le turbolenze dell’Europa e dei nuovi assetti internazio­nali con la vittoria di Trump. Un’impresa complicata che servirà motivare con una ragione politica forte e con una leadership altrettant­o forte, in grado di competere con Grillo e Salvini. Più semplice sarà imboccare la strada più corta, quella di indicare un Esecutivo a termine, che faccia la legge elettorale e porti il Paese al voto prima dell’estate.

Ieri Renzi ha passato la palla ai vincenti del No - a loro l’onere del dopo, diceva - mentre c’era già chi invocava il voto subito. Questo sarà il bivio. Se affrontare le urne o dotarsi di una corazza politica così forte da proseguire la legislatur­a fino alla fine.

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