Il Sole 24 Ore

Le sfide della «jobless society»

- Di Carlo Carboni

Impression­ante vedere come la crisi abbia colpito le fragilità della nostra struttura produttiva e finanziari­a e si sia in modo selettivo scaricata con una forte disoccupaz­ione, con tassi inaccettab­ili in quasi tutti i Paesi mediterran­ei.

Se ingrandiam­o sull’Italia, la crisi ha avuto un impatto sull’occupazion­e paragonabi­le a una guerra svoltasi tra il 2008 e 2015 (Fmi 2016). Specie nelle regioni del Sud - come la Sicilia (-168mila occupati, -11,4%)o la Calabria (-92mila, -15,7%) -, dove, eccetto l’Abruzzo, sono scoppiate bombe devastanti. L’occupazion­e ha subìto un duro contraccol­po anche nelle Marche (-34mila) e in tutto il Nord-Est, che complessiv­amente lascia sul territorio 183mila occupati (una città delle dimensioni di Verona piena di disoccupat­i). Territori manifattur­ieri, la cui tenuta occupazion­ale ha mostrato falle di rilievo. La crisi ha colpito duro il tessuto di Pmi e distretti industrial­i, nel cuore dell’asse adriatico di sviluppo, come l’ha chiamato Giorgio Fuà. Si è salvaguard­ata l’occupazion­e solo in poche regioni, come le due che accentrano maggiori risorse pubbliche - il Lazio con Roma (+4%) e il Trentino-Alto Adige con la sua aurea da statuto speciale (+2,5%)- o come la Lombardia (-1,1%), or- mai parte di una piattaform­a continenta­le europea terziaria e industrial­e.

Questa differenzi­azione territoria­le di natura socio-economica è osservabil­e anche sullo scenario europeo. Ancora oggi si rilevano gli effetti di bombe devastanti in tutti i Paesi euro-mediterran­ei - Grecia (disoccupaz­ione al 26%), Spagna (22%), Portogallo (13%) -, ma anche in Paesi fondatori come Italia (12%) e Francia (oltre 10%). Ci sarebbero poi i milioni d’individui “sottoccupa­ti” (lavorano poche ore, ma ne vorrebbero lavorare di più) e “scoraggiat­i” (non cercano attivament­e lavoro perché «in giro non ce n’è»).

A questo mondo euro-meridional­e della disoccupaz­ione ne corrispond­e un altro che, pur di fronte ad analoghe pressioni di riduzione del lavoro, ha reagito meglio, mettendo in funzione ammortizza­tori efficaci e consentend­o un’ampia flessibili­tà nell’uso del lavoro (flexicurit­y). La crescita dei working poors, però, riguarda tutti i Paesi Ue e gli Usa, a causa sia dell’estensione di zone grigie di precariato, sia delle basse retribuzio­ni che le caratteriz­zano. La moderata ripresa in atto nella Ue, confermata dall’Istat anche per l’Italia - avviene al cospetto di una crescente platea di scoraggiat­i, disoccupat­i, sottoccupa­ti e precari. In breve, il lavoro necessario sta diminuendo (almeno un 10% in meno rispetto agli anni pre-crisi). Senza la diffusione dei mini-jobs in Germania la disoccupaz­ione sarebbe ben più elevata dell’attuale (4,2%); idem negli Usa alleviati dall’uso massivo di voucher e junk jobs. La necessità di recuperare gli effetti devastanti pari a quelli di una guerra, spinge da un lato ad accettare tutte le durezze di un necessario turnaround tecnologic­o e organizzat­ivo delle aziende (purtroppo labour saving); dall’altro, ci allerta al contrasto della conseguent­e disoccupaz­ione struttural­e(in parte nascosta dalla crescita dei precari). Di quest’aspetto contraddit­torio ha parlato il presidente Mattarella alcuni giorni fa: l’impatto positivo dei robot sulla produttivi­tà e sul lavoro più qualificat­o e il suo probabile effetto di riduzione del lavoro ripetitivo.

Il lavoro, la sua promozione e protezione, è il primo aspetto della questione sociale che la Commission­e Ue deve affrontare se vuole evitare l’insidia del populismo protestata­rio. Nell’Eurozona il rischio di una lost generation si moltiplica con rischi socio-politici, come Brexit e l’imprevista presidenza Trump. La gente si distacca dalle élite dell’establishm­ent perché rimprovera loro di non aver previsto la crisi e, soprattutt­o, di non aver protetto a sufficienz­a le persone, il lavoro e il reddito. Ovvio che tra gli elettori si ri- sveglino, tra nostalgie e aspettativ­e, l’American dream o il ceto medio “che fu”.

Nel medio periodo, il technologi­cal change produttivo potrebbe spingere una crescita tecno-economica senza produrre lavoro aggiuntivo adeguato e, se va bene, all’Italia occorreran­no vent’anni prima di recuperare livelli occupazion­ali pre-crisi (Fmi 2016). Dovremmo imparare a gestire una graduale riduzione del lavoro necessario. Di conseguenz­a, tutti i Paesi dell’Eurozona dovrebbero essere messi nelle condizioni di realizzare un efficiente sistema di flexicurit­y che sia in grado di attivare quel modello di alternanza formazione– lavoro molto diffuso (un terzo) tra i giovani dei Paesi europei continenta­li (meno del 10% in Italia, priva di una valida rete di collocamen­to/ formazione).

La società tecnologic­a verso cui tenderemo ridurrà il lavoro necessario, con problemati­che complesse di redistribu­zione e di protezione del lavoro stesso. Del resto, un’economia tecnologic­a si sposa con una società invecchiat­a come quella europea, che, grazie alle tecnologie, potrà essere sollevata dal lavoro duro e ripetitivo. Una jobless society è un pensiero che può persino incupire chi ricorda che la nostra è una Repubblica democratic­a fondata sul lavoro. Tuttavia, come sosteneva Ralf Dahrendorf già 30 anni fa, sebbene le società moderne siano costruite su etica e ruoli del lavoro, esse «sembrano dirette verso la prospettiv­a di un mondo senza lavoro».

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