Le sfide della «jobless society»
Impressionante vedere come la crisi abbia colpito le fragilità della nostra struttura produttiva e finanziaria e si sia in modo selettivo scaricata con una forte disoccupazione, con tassi inaccettabili in quasi tutti i Paesi mediterranei.
Se ingrandiamo sull’Italia, la crisi ha avuto un impatto sull’occupazione paragonabile a una guerra svoltasi tra il 2008 e 2015 (Fmi 2016). Specie nelle regioni del Sud - come la Sicilia (-168mila occupati, -11,4%)o la Calabria (-92mila, -15,7%) -, dove, eccetto l’Abruzzo, sono scoppiate bombe devastanti. L’occupazione ha subìto un duro contraccolpo anche nelle Marche (-34mila) e in tutto il Nord-Est, che complessivamente lascia sul territorio 183mila occupati (una città delle dimensioni di Verona piena di disoccupati). Territori manifatturieri, la cui tenuta occupazionale ha mostrato falle di rilievo. La crisi ha colpito duro il tessuto di Pmi e distretti industriali, nel cuore dell’asse adriatico di sviluppo, come l’ha chiamato Giorgio Fuà. Si è salvaguardata l’occupazione solo in poche regioni, come le due che accentrano maggiori risorse pubbliche - il Lazio con Roma (+4%) e il Trentino-Alto Adige con la sua aurea da statuto speciale (+2,5%)- o come la Lombardia (-1,1%), or- mai parte di una piattaforma continentale europea terziaria e industriale.
Questa differenziazione territoriale di natura socio-economica è osservabile anche sullo scenario europeo. Ancora oggi si rilevano gli effetti di bombe devastanti in tutti i Paesi euro-mediterranei - Grecia (disoccupazione al 26%), Spagna (22%), Portogallo (13%) -, ma anche in Paesi fondatori come Italia (12%) e Francia (oltre 10%). Ci sarebbero poi i milioni d’individui “sottoccupati” (lavorano poche ore, ma ne vorrebbero lavorare di più) e “scoraggiati” (non cercano attivamente lavoro perché «in giro non ce n’è»).
A questo mondo euro-meridionale della disoccupazione ne corrisponde un altro che, pur di fronte ad analoghe pressioni di riduzione del lavoro, ha reagito meglio, mettendo in funzione ammortizzatori efficaci e consentendo un’ampia flessibilità nell’uso del lavoro (flexicurity). La crescita dei working poors, però, riguarda tutti i Paesi Ue e gli Usa, a causa sia dell’estensione di zone grigie di precariato, sia delle basse retribuzioni che le caratterizzano. La moderata ripresa in atto nella Ue, confermata dall’Istat anche per l’Italia - avviene al cospetto di una crescente platea di scoraggiati, disoccupati, sottoccupati e precari. In breve, il lavoro necessario sta diminuendo (almeno un 10% in meno rispetto agli anni pre-crisi). Senza la diffusione dei mini-jobs in Germania la disoccupazione sarebbe ben più elevata dell’attuale (4,2%); idem negli Usa alleviati dall’uso massivo di voucher e junk jobs. La necessità di recuperare gli effetti devastanti pari a quelli di una guerra, spinge da un lato ad accettare tutte le durezze di un necessario turnaround tecnologico e organizzativo delle aziende (purtroppo labour saving); dall’altro, ci allerta al contrasto della conseguente disoccupazione strutturale(in parte nascosta dalla crescita dei precari). Di quest’aspetto contraddittorio ha parlato il presidente Mattarella alcuni giorni fa: l’impatto positivo dei robot sulla produttività e sul lavoro più qualificato e il suo probabile effetto di riduzione del lavoro ripetitivo.
Il lavoro, la sua promozione e protezione, è il primo aspetto della questione sociale che la Commissione Ue deve affrontare se vuole evitare l’insidia del populismo protestatario. Nell’Eurozona il rischio di una lost generation si moltiplica con rischi socio-politici, come Brexit e l’imprevista presidenza Trump. La gente si distacca dalle élite dell’establishment perché rimprovera loro di non aver previsto la crisi e, soprattutto, di non aver protetto a sufficienza le persone, il lavoro e il reddito. Ovvio che tra gli elettori si ri- sveglino, tra nostalgie e aspettative, l’American dream o il ceto medio “che fu”.
Nel medio periodo, il technological change produttivo potrebbe spingere una crescita tecno-economica senza produrre lavoro aggiuntivo adeguato e, se va bene, all’Italia occorreranno vent’anni prima di recuperare livelli occupazionali pre-crisi (Fmi 2016). Dovremmo imparare a gestire una graduale riduzione del lavoro necessario. Di conseguenza, tutti i Paesi dell’Eurozona dovrebbero essere messi nelle condizioni di realizzare un efficiente sistema di flexicurity che sia in grado di attivare quel modello di alternanza formazione– lavoro molto diffuso (un terzo) tra i giovani dei Paesi europei continentali (meno del 10% in Italia, priva di una valida rete di collocamento/ formazione).
La società tecnologica verso cui tenderemo ridurrà il lavoro necessario, con problematiche complesse di redistribuzione e di protezione del lavoro stesso. Del resto, un’economia tecnologica si sposa con una società invecchiata come quella europea, che, grazie alle tecnologie, potrà essere sollevata dal lavoro duro e ripetitivo. Una jobless society è un pensiero che può persino incupire chi ricorda che la nostra è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Tuttavia, come sosteneva Ralf Dahrendorf già 30 anni fa, sebbene le società moderne siano costruite su etica e ruoli del lavoro, esse «sembrano dirette verso la prospettiva di un mondo senza lavoro».