Lezioni dalle urne: perché l’Italia è meno divisa di quel che sembra
Tanto vale che lo dica subito, per chiarezza: io non sono andato a votare. Di questa sciagurata tenzone, infatti, non mi è piaciuto proprio nulla.
Ma di tutte le cose che mi sono dispiaciute ce ne sono soprattutto due che mi hanno allontanato dal voto. La prima è che il referendum ha tolto ogni spazio di espressione ai riformisti radicali come me, ovvero a quanti pensano che la Costituzione richieda un robusto restyling, ma non così, non con questo brutto anatroccolo.
All’università, tra qualche giorno, verrà avviata la rilevazione della “opinione degli studenti sulle attività didattiche”, cioè la valutazione degli insegnamenti. È un rituale che si ripete a ogni semestre. Agli studenti presenti in aula sarà chiesto di rispondere a una serie di domande fornite dal Miur e integrate da quesiti proposti dai singoli atenei. Sarà anche possibile aggiungere, in forma anonima, commenti specifici sul corso o sul docente o sulle strutture didattiche. Le singole opinioni saranno, in seguito, rese note al docente titolare, mentre il dato aggregato verrà comunicato ai responsabili del corso di studio e della Scuola. La teoria è perfetta: tutti gli studenti presenti a lezione avranno la possibilità di dare la pagella al loro docente. I risultati potranno essere usati per assegnare risorse e influenzare le promozioni di carriera.
La valutazione è diventata in questi anni, e giustamente, uno dei pilastri dell’operare universitario. Abbiamo lasciato – mi auguro definitivamente – l’epoca della discrezionalità e della autoreferenzialità per entrare in una nuova era in cui si valuta tutto e più volte (ricerca, didattica, dottorati, dipartimenti, finanziamenti, terza missione, capacità di attrazione, numero di studenti in ingresso, abbandoni, durata media dei corsi di studio, ecc.). Questa valutazione a tutto campo, guidata ora dall’Anvur, è faticosa e non sempre soddisfacente, ma – tra risorse assegnate con eccesso di valutazione e risorse assegnate con eccesso di discrezionalità e senza responsabilità – preferisco comunque un eccesso del primo tipo.
Tuttavia, la valutazione, per essere utile, deve fornire informazioni affidabili, altrimenti rischia di essere controproducente. Altri ragionamenti andranno fatti per la ricerca, ma qui analizziamo lo strumento del questionario rivolto agli studenti.
Esso viene sottoposto agli studenti presenti in aula in un determinato “giorno X” prescindendo dal fatto che la popolazione di quel giorno sia rappresentativa o meno della frequenza che, come si sa, non è quasi mai obbligatoria. Ad eccezione di qualche laboratorio, agli studenti universitari non è richiesto di seguire le lezioni in modo sistematico e tantomeno di studiare durante l’anno.
Si direbbe che non abbia molto senso porre a questi spettatori, spesso passivi, spesso saltuari, domande come: «Il docente espone gli argomenti in modo chiaro?» oppure «il docente stimola / motiva l’interesse verso la disciplina?». Le risposte premieranno la capacità affabulatoria forse più che l’efficacia didattica, e il tasso di successo del corso sarà prevedibilmente inversamente proporzionale alla difficoltà della materia trattata, anche perché pochissimi studenti staranno studiando durante il corso. Il risultato sarà una immagine a dir poco distorta della qualità dell’insegnamento.
In alternativa, si potrebbe pensare di condurre l’indagine dopo l’esame. Qualche ateneo lo sta facendo. L’esame è il momento della verifica dell’apprendimento e forse potrebbe essere un momento migliore per una verifica della qualità della docenza. Nei nostri regolamenti, tuttavia, l’esame è scollegato dall’insegnamento e può essere sostenuto anche molto tempo dopo averlo seguito o non seguito. Per capirci, l’esame di un insegnamento che si sta svolgendo in questo semestre (autunno 2016) potrà essere sostenuto “in corso” nel marzo del 2018 e anche dopo, se non c’è una qualche propedeuticità da rispettare. Quindi è difficile anche impostare la valutazione su opinioni raccolte ex-post, se si è frequentato quel corso un anno e mezzo prima o non lo si è frequentato affatto. O magari lo si è frequentato con altro docente. C’è qualcosa che non va anche in questo.
Eppure, come ho detto, la teoria è perfetta: chi meglio degli studenti può dire se il docente è presente, disponibile, aggiornato e se la sua didattica è efficace?
Forse dovremmo chiederci, non già se lo strumento di valutazione è adeguato, ma se è adeguato un modello di didattica basato sulla logica del “self service”, dove lo studente – fatte le debite eccezioni – è il “cliente” che prende quello che ritiene che gli serva e quando ritiene che gli serva. Se così è, e se così deve rimanere, allora orientiamoci su indagini di “customer satisfaction” a campione magari mediante call center. Si risparmierà tempo e denaro.