Un caso che alimenta il furore anti establishment
In un momento in cui il tema del populismo è al centro delle analisi politologiche, vari esperti sottolineano che la strada dell’impeachment della presidente sudcoreana è stata spianata dalla piazza, almeno nel convincere una congrua parte del partito di governo a unirsi all’opposizione per evitare di andare incontro a una batosta senza precedenti nelle future elezioni. Gli umori popolari si sono espressi in sei weekend consecutivi di imponenti manifestazioni a Seul, mentre la popolarità della presidente è scesa al minimo assoluto del 4%. Dimostrazioni e veglie al lume di candela continueranno fino a che la Park non uscirà di scena.
In una vicenda di difficile comprensione all’estero, esperti e social media indicano le ragioni dell’esplosione di un vero e proprio furore popolare nell’intollerabilità del “Choi Gate”: abituati (anche se non rassegnati) a scandali che investono le massime cariche istituzionali, i coreani non possono ammettere l’umiliazione nazionale di una presidenza percepita come eterodiretta da una sciamana. Per intenderci: anche in Italia apparirebbe inconcepibile un Quirinale pilotato nell’ombra da una santona affarista.
A questo punto ventate populiste – tra invocazioni di manette ed ampio utilizzo dei social network – possono emergere nella futura campagna elettorale. Sta crescendo nei sondaggi il sindaco di Seongnam (una cittadina vicino a Seul che ospita molte aziende tecnologiche), Lee Jaemyung: ex avvocato di umili origini, utilizza molto i nuovi media per i contatti con i sostenitori; vuole che la Park finisca in galera e desidera un vertice con il leader nordcoreano Kim senza precondizioni; manifesta grande rispetto per Trump ma non disdegna il paragone con Bernie Sanders. «Gli americani hanno votato per l’impeachment del loro establishment eleggendo Trump – ha detto –. Le nostre elezioni rifletteranno la stessa dinamica». Il 52enne Lee potrebbe diventare in grado di sfidare il potenziale candidato oggi più accreditato come futuro inquilino della Blue House, Moon Jae-in, scavalcandolo nell’intercettazione della collera anti-establishment. Lee stesso ha detto che il Partito Democratico (oggi all’opposizione ma maggioritario in parlamento) non dovrebbero ripetere l’errore dei democratici americani, che alle primarie hanno preferito la Clinton a Sanders. I suoi toni aspramente antigiapponesi (elemento di più scontato populismo in Corea) hanno cominciato a preoccupare Tokyo. Le sue proposte di aumento del welfare per classi lavoratrici sempre più insicure - tra carenza di posti di lavoro e alto indebitamento delle famiglie – appaiono di effetto, così come la sua idea di smantellare i grandi chaebol che lui considera ormai un problema più che una risorsa per l’economia: li ha paragonati a un cuore gonfiatosi fino a impedire che il sangue affluisca altrove. Per ora Lee – unico ad essersi già autocandidato - è superato nei pre-sondaggi anche dall’ex numero uno dell’Onu, Ban Ki-moon, che però appare ormai danneggiato dai suoi legami con il partito di governo.