Un’informazione attenta al vero senso delle cose
Non penso sia corretto nascondersi il disagio che a diversi livelli e per diversi motivi sta caratterizzando questo tornante di vita e di storia del nostro Paese, sia dal punto di vista economico sia da quello socio-politico. Non gioverebbe a nessuno. Né penso abbia senso esercitarsi nell’arte dello “scaricabarile”, sport molto praticato, con tanti partecipanti e con risultati di notevole rilievo a tutti i livelli anche in questi giorni. Con corollario di medaglie che alcuni “eroi” appuntano da sé sul proprio petto, accompagnando semmai questa patetica cerimonia con linguaggio da osteria. Il pericolo di rassegnarsi a tutto questo e la tentazione di sottrarsi alle proprie responsabilità – ahimè - esiste. Ma c’è anche tutto un mondo disposto a innescare e sostenere processi di segno opposto. Ne ho fatto esperienza nei giorni scorsi partecipando a due incontri, con protagonisti diversi, ma aventi un denominatore comune: la comunicazione. Canale straordinario di informazione e di formazione ma che, usato male, diventa strumento di corruzione delle intelligenze e dei costumi.
Nel primo dei due incontri ho incrociato giornalisti impegnati con grande passione ed altrettanta professionalità “sul territorio”, al servizio dei Settimanali diocesani: una realtà che da decenni presidia le periferie e da voce a pezzi di vita ordinariamente ignorati dalla grande comunicazione, a meno che non si prestino a considerazioni pruriginose.
Nel secondo incontro ho potuto dialogare con circa mille giovani, accompagnati in un percorso di formazione dall’«Osservatorio Permanente Giovani – Editori». Prima di me questi ragazzi si erano confrontati con grandi giornalisti o con personalità della vita civile su temi di forte impatto sociale; mentre a me è toccato, assieme al direttore Napoletano, soffermarmi con loro sul tema: “La società giusta inizia subito: la povertà educativa e le seconde generazioni”.
Il dialogo con i giornalisti dei settimanali diocesani, riuniti da 50 anni in Federazione (Fisc), mi ha permesso di sottolineare l’importanza di una comunicazione che, attenta al territorio, lo serva nella verità, con intelligenza e lungimiranza. È ancora troppa, a mio parere, la fatica che tanti professionisti fanno a lasciarsi interrogare seriamente dal “contesto” vero nel quale operano. Il “contesto” può essere visto e vissuto come humus fecondo nel quale metterci del proprio perché continui a produrre frutti saporosi; oppure può essere visto e vissuto come un limite dal quale fuggire e del quale liberarsi. Quest’ultimo è l’atteggiamento tipico di chi ha i suoi schemi – probabilmente le sue comodità e i suoi tornaconti – dai quali si sente rassicurato e che non ha nessuna voglia di abbandonare.
È chiaro che chi accetta di “abitare” lealmente il “contesto” e di mettersi in gioco farà una comunicazione diversa da quella di chi si sente al sicuro con e dentro i suoi schemi. È grande la fatica che oggi fanno i lettori più avveduti per sottrarsi all’abbraccio mortale rappresentato da letture preconcette e faziose della realtà da parte di alcuni – troppi – operatori della informazione. Non potrebbe essere anche questa una delle cause di disaffezione dei lettori? Sia chiaro: succede anche nell’ambito che frequento di più, l’ambito della Chiesa; quanta fatica a capire e accettare il “contesto” nel quale oggi sono chiamati a operare.
Quanta fatica ad accettare che, dopo la straordinaria e feconda stagione guidata da Giovanni Paolo II e quella – certamente positiva e, per certi versi, provvidenzialmente sorprendente di Benedetto XVI – il buon Dio abbia messo sulla strada della sua Chiesa e del mondo papa Francesco. Il risultato della pervicace distanza dal “contesto” e dalla vita reale, si esprime in articoli e servizi che trasudano atteggiamenti di rancoroso risentimento. Per cui: quanti guardiani abusivi della “vera dottrina” stanno in giro oggi, anche in pagina!
Quante guide non richieste offrono con un bel po’ di arroganza i loro servigi. Fino a meritare quanto ha detto solo qualche giorno fa papa Francesco in un’intervista al settimanale cattolico belga “Tertio”: «I media devono essere molto limpidi, molto trasparenti, e non cadere, senza offesa, nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo». Come si vede, papa Francesco non usa eufemismi per denunciare quella che a suo avviso è la patologia peggiore dell’informazione mediatica. Tante volte Francesco ha avuto modo di pronunziare parole di grande stima e di apprezzamento per l’intero sistema dell’informazione «in se stesso positivo»; senza per questo ignorare l’esistenza di un’informazione nella quale la verità è spesso sostituita con l’opinione. Con quanta facilità – anzi, con quanta superficialità – oggi tanti si ergono a commentatori di quanto accade, attribuendosi competenze quanto meno discutibili, quando non semplicemente proporzionate alla propria presunzione! In un paradosso solo apparente, ai giorni nostri convivono una frammentazione mediatica sempre più complessa e una emergente domanda di senso, unita alla volontà di difendersi dal subdolo e interessato mondo della “post-verità”.
L’ho toccato con mano dialogando con i giovani incontrati a La Spezia. Con loro è stato importante richiamare la necessità di una responsabilità che contribuisca a ridurre il peso negativo di una informazione asservita, a vantaggio di una comunicazione che interpelli e si lasci interpellare non solo dal “possibile”, ma anche dal “faticosamente possibile” e – perché no? – dall’inedito e dall’impossibile. Una comunicazione che, così, finisce per diventare cura quotidiana del “senso” delle cose, delle parole e delle persone.