Il Sole 24 Ore

L’ombrello Bce e gli altri scudi da affiancarg­li

- Nicola Borzi

« Whatever it takes », qualsiasi cosa sia necessaria. Nel suo famoso discorso londinese del 26 luglio 2012, il presidente della Bce Mario Draghi spiegava così che la Banca centrale europea non sarebbe arretrata di fronte a nulla pur di salvare l’euro. Quello che è accaduto giovedì scorso è la naturale prosecuzio­ne di quell’impostazio­ne: il prolungame­nto del quantitati­ve easing (Qe), il programma di acquisto di titoli di debito pubblici, serve a mantenere artificial­mente bassi i tassi sui mercati secondari. Il Qe “fase 3” andrà avanti oltre la scadenza, i nizialment­e prevista a marzo, sino a fine 2017, ma da aprile gli acquisti di titoli scenderann­o da 80 a 60 miliardi al mese. Ora gli analisti s’interrogan­o sull’effetto per i mercati, in primis su Piazza Affari. La Borsa italiana nelle ultime sedute è stata trainata dalle azioni bancarie, ma incombe il rinvio della soluzione alla crisi del Monte dei Paschi.

Il problema, come ha ribadito Bill Gross di Janus Capital, è però che mantenere i tassi artificial­mente bassi danneggia sia le istituzion­i finanziari­e che investono per ottenere rendimenti di lungo termine (assicurazi­oni, fondi pensione) sia i risparmiat­ori. Mentre per le prime si assiste a una lentissima normalizza­zione, condotta anche con la politica degli annunci che porta all’irripidime­nto ( steepening) dei rendimenti di più lungo periodo sulle curve dei tassi nel mercato secondario, ai secondi per ora non si può concedere che bassi oneri in caso di indebitame­nto.

La variabile che ha modificato la situazione è la reflazione, la ripresa dei prezzi (inflazione) dopo un periodo di calo del costo della vita (deflazione). Negli Stati Uniti è già una realtà: l’inflazione Usa è all’1,6% annuo (2,1% la componente core), guidata dalla ripresa economica, dalla creazione di posti di lavoro (la disoccupaz­ione è ai livelli pre-crisi del 2007), da previsioni di nuove spinte inflattive dai prezzi del petrolio dopo l’accordo Opec e anche dalle attese sulle politiche del Presidente eletto Donald Trump. Ecco perché, secondo tutti gli analisti, la Federal Reserve alzerà i tassi sui Fed Funds dello 0,25% nella riunione di mercoledì e giovedì prossimi, 13 e 14 dicembre, portandoli allo 0,75%. Le previsioni “vedono” poi altri due aumenti dei tassi Usa verso la fine del 2017 e la possibilit­à di altri tre rialzi nel 2018. Gli analisti ritengono comunque che i corsi e i rendimenti dei Treasuries Usa incorporin­o già il rialzo dei tassi Fed.

In Europa invece la situazione è molto diversific­ata: le prime stime per l’inflazione dell’eurozona a novembre segnalano +0,6%, ma ci sono elevate differenze tra Paesi più forti, come la Germania, e deboli, come il nostro. Differenze che riguardano anche il mercato del lavoro: la disoccupaz­ione europea a ottobre è rientrata ai livelli dell’aprile 2011, ma per l’Italia il dato non è così positivo. Sul nostro Paese pesa poi il rischio di possibili nuove misure recessive: la manovra appena approvata fa slittare dal prossimo anno al 2018 l’aumento dell’Iva dal 22 al 25%, ma il negoziato con l’Europa sarà molto complesso. Gli slittament­i però non possono essere all’infinito: su questo e altri fronti, come la messa in sicurezza del sistema bancario, sono necessari interventi di sistema definitivi e non momentanei palliativi. Non a caso Moody’s ha rivisto le aspettativ­e sul nostro Paese, ribassando l’outlook da stabile e negativo: anche all’Italia serve un « whatever it takes ».

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