Le lacune dell’impresa culturale
Se ne discute a Milano il 15 dicembre in Triennale
I nodi dell’impresa culturale all’attenzione di commercialisti e operatori il prossimo 15 dicembre, alla Triennale di Milano, in un convegno organizzato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano (che ha costituito una specifica Commissione dedicata all’Economia della Cultura) in collaborazione con Federculture. A confronto politica (Mef e Mibact) e sistema culturale per discutere di semplificazione, leva fiscale, finanziamenti pubblici e privati alla cultura, sue responsabilità ed eccezioni. «L’impresa culturale oggi, pur rappresentando il comparto economicamente più significativo per interesse nel nostro Paese, opera in un sistema con lacune significative» spiega Franco Broccardi dello Studio Lombard DCA di Milano, organizzatore del convegno. «La prima per sostanza e gravità è la sua riconoscibilità: non esiste una definizione normativa delle industrie culturali e creative (ICC), che ne determini i confini e che, soprattutto, ne esalti le caratteristiche. Che fornisca a chi opera un senso di appartenenza all’interno dello Stato. Da qui deriverebbe la capacità e l’organizzazione della difesa dei diritti (a partire da quello d’autore ma non solo) e delle idee che del settore creativo sono la sostanza, come e più di ogni altra impresa. Ne deriva, naturalmente, la finanziabilità». Infatti le imprese culturali operano in un ambito in cui gli aspetti immateriali sono spesso il fulcro dell’attività e con modelli di business differenti da quelli di un’impresa tradizionale. «Si tratta di soggetti spesso senza una reale cultura economica – prosegue Broccardi –, ancor più spesso poco o nulla capitalizzati. Soggetti che la finanza ha difficoltà a ‘maneggiare' per una frequente incapacità nel gestire la bancabilità dei beni immateriali e l’assenza di protocolli di valutazione».
Come scrisse Massimo Severo Giannini: «il bene culturale non è la cosa. La cosa è il supporto, il bene culturale è il suo valore pubblico» (in «I beni culturali», in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1976, I). Insomma la cultura si deve fare impresa, ma come? «Deve saper razionalizzare le forze e gli investimenti – risponde il commercialista –, deve saper guardare al privato come al pubblico per la propria sostenibilità. La politica deve riconoscerne l’eccezione e l’importanza con politiche fiscali, societarie, amministrative che ne favoriscano l’esistenza e, al contempo, pretendere trasparenza e rendicontazione innescando un meccanismo virtuoso con evidenti riflessi sul fundraising rivolto ai privati». E questo dovrebbe valere a prescindere dalla forma giuridica degli operatori. «Infatti anche associazioni e fondazioni possono/devono essere ricomprese all’interno della definizione di ICC. Il problema, in realtà, è nell’uso della forma associazionistica fino ad oggi spesso utilizzata come escamotage fiscale a danno di chi davvero opera come no profit: un settore chiaro, normato e agevole eliminerebbe questo malvezzo» suggerisce Broccardi.
Quali le soluzioni? «Sul piano operativo riterrei interessante prevedere l’istituto della SRL-C.S., la SRL culturale semplificata che, sulla fattispecie della SRL-S, dovrebbe avere uno statuto standard a fronte di semplificazioni e agevolazioni in fase costitutiva. Sulla scia delle B-Corp si potrebbe identificare con la lettera C tutte le imprese di un comparto dotato di autonoma disciplina, specifici obblighi e agevolazioni. Comparto per il quale anche il Consiglio dell’Unione Europea nel suo piano di lavoro per la cultura (2015-2018) ha evidenziato come priorità una particolare attenzione da parte dell’ecosistema finanziario e l’esame di strumenti finanziari, sia tradizionali sia alternativi (fondi pubblico-privati, crowdfunding, sponsorizzazioni…)». Sono molti i terreni di battaglia: diritto di seguito e ruolo della Siae, definizione di attività commerciali per chi opera nel no profit, Iva nel mercato dell’arte, vendita dei biglietti per gli spettacoli, reale portata dell’Art Bonus…
È ormai necessaria una riorganizzazione del settore che semplifichi le norme e le renda applicabili e univoche, che regoli la definizione, la fiscalità, i finanziamenti sia pubblici che privati e che preveda la formazione alla imprenditorialità, favorendo la creazione presso gli istituti finanziari di settori specializzati ad oggi poco competenti, di uno sportello per l’accesso ai finanziamenti nazionali ed europei.
— Ma. Pi.