L’agenda riformista e le sfide dell’economia
C’era da aspettarselo. L’esito referendario ha lasciato una grande confusione. Il referendum ha portato alla superficie un malessere diffuso, in particolare nelle regioni del sud e tra i giovani. È stato anche un’occasione per dare un bel colpo al governo Renzi. Tuttavia, il suo esito non ci dice come andare avanti. Ognuno tira la coperta dalla propria parte. Ognuno guarda al proprio vantaggio elettorale o personale.
La mia preoccupazione è un’altra. Come affrontare i problemi ereditati dal referendum, senza far retrocedere l’agenda riformista istituzionale ed economica? Infatti, il referendum ha bocciato una proposta di riforma e il governo che l’ha avanzata, ma non ha certo messo la parola “fine” sulle esigenze di riforma del paese. La riforma (istituzionale ed economica) continuerà a costituire il terreno centrale di scontro tra visioni ed interessi diversi per ancora molto tempo. L’agenda riformista ha tre sfide da affrontare.
La prima è immediata: quando sciogliere le camere? L’esito del referendum ha mostrato che vi è un disallineamento politico tra la maggioranza parlamentare e la maggioranza elettorale. Quando si manifesta una crisi di questa portata, è evidente che il governo deve dimettersi, chiedendo quindi nuove elezioni per verificare la natura di quel disallineamento. Ed è ciò che ha fatto Renzi. È comprensibile che il Capo dello Stato sia prudente nel concedere nuove elezioni, sapendo che la legge elettorale della Camera dei deputati è sotto il giudizio della Corte costituzionale. Colpisce, tuttavia, che quest’ultima abbia deciso di rinviare la sua decisione (originariamente prevista per il 4 ottobre scorso) al prossimo 24 gennaio. La decisione è tecnicamente giustificabile, tuttavia il suo effetto è stato quello di espropriare (per ben due mesi) il Capo dello Stato del principale potere di cui dispone, quello di scioglimento delle camere. Comunque sia, dal punto di vista dell’agenda riformista, la questione non concerne i rapporti tra le istituzioni dello stato, bensì il futuro del blocco sociale ed elettorale (circa 13 milioni di italiani) che si è espresso a favore della riforma il 4 dicembre scorso. Il prolungamento della legislatura indebolirebbe irrimediabilmente le esigenze di riforma espresse da quel blocco. La formazione di un nuovo governo per portare a compimento la legislatura, il quarto non eletto dal 2008, sarebbe come gettare un fiammifero acceso nel pagliaio del populismo. Se le elezioni si tenessero tra un anno, il loro esito sarebbe scontato, qualsiasi sarà il sistema elettorale con cui si andrà a votare. Si avrebbe il trionfo del Movimento di Di Maio e della Lega di Salvini, sempre più convergenti verso programma e linguaggi lepenisti. Per questo motivo, occorre andare prima possibile alle elezioni. Peraltro, non è necessario che il Parlamento si fermi fino al prossimo 24 gennaio. Potrebbe sin da subito lavorare ad un accordo. Sapendo, però, che c’è un modo per bloccare i tentativi di tirarla per le lunghe. Adottare anche per la Camera il Consultellum emerso dalla sentenza della Corte costituzionale del 13 gennaio 2014. Con piccole modifiche alle soglie, si avrebbero due sistemi elettorali proporzionali sufficientemente compatibili per l’uno e per l’altro ramo del Parlamento. Naturalmente, il sistema proporzionale non garantisce che si formerà facilmente un governo. Nell’ipotesi migliore potrà portare ad un governo di coalizione. Comunque, è interesse dell’agenda riformista non logorare l’elettorato del Sì. Il 40% è una minoranza nel referendum, ma potrebbe divenire la maggiore minoranza nel Parlamento. Ovvero il socio principale del possibile governo di coalizione.
La seconda sfida riguarda la riforma economica. La logica politica del governo di coalizione non è favorevole a quest’ultima. Se per riforma economica si intende, ad esempio, la riorganizzazione del sistema bancario, nel senso della neutralizzazione delle rendite di posizione istituzionalizzate al suo interno, allora sarà difficile che essa possa essere perseguita da un governo di coalizione al cui interno saranno probabilmente rappresentate non poche di quelle rendite di posizione. Il trasferimento di risorse (scarse) dalla rendita allo sviluppo è un’operazione che attiva molte resistenze. Se si vuole tagliare il cuneo fiscale che obera lavoratori e imprese, se si vogliono realizzare investimenti infrastrutturali e tecnologici, se si vogliono introdurre incentivi per premiare la crescita della produttività, se si vuole fare tutto ciò in presenza di forti vincoli di bilancio (abbiamo il secondo debito pubblico dell’Eurozona), allora bisognerà liberare risorse dai settori improduttivi e protetti. È evidente che una larga coalizione si baserà su compromessi che precluderanno un’azione decisa per realizzare tutto ciò. Tuttavia, vi sono compromessi e compromessi. La rappresentanza dell’agenda riformista, se riceve un solido consenso elettorale, consentirebbe di preservare e di consolidare le riforme promosse e quelle già decise ma in attesa di essere implementate. Troppo poco? Può darsi. Tuttavia, in politica, come nella vita, riuscire a non arretrare può essere un
CONSULTA E QUIRINALE Il rinvio al 24 gennaio del giudizio sull’Italicum ha di fatto privato il Colle per due mesi del potere di scioglimento
successo, quando si agisce in condizioni avverse.
La terza sfida riguarda la riforma istituzionale. Qualcuno ha già detto che, per almeno una generazione, non si parlerà più di riforma costituzionale. La logica politica porta però ad una conclusione diversa. La stessa formazione di un governo di coalizione si rivelerà così complicata, anche per la diversa composizione partitica dell’una e dell’altra camera, da riportare alla luce le incongruenze del nostro parlamentarismo. Per non parlare delle pressioni europee che continueranno a mostrare le inefficienze del nostro sistema regionale. Paradossalmente, l’esistenza di un governo di coalizione potrebbe aiutare a riprendere il filo riformista, riducendo le rivalità partigiane. Anche in questo caso, però, gli obiettivi che si potranno raggiungere saranno limitati. Tuttavia, una larga coalizione potrebbe concordare modi e tempi di una qualche razionalizzazione del bicameralismo paritario e del sistema regionale (e magari avviare l’abolizione del Cnel e delle province con un voto parlamentare a maggioranza qualificata). Di nuovo, più forte sarà (nella coalizione) la rappresentanza dell’agenda riformista, più vicino a quest’ultima sarà il punto d’equilibrio della coalizione.
Insomma, dal punto di vista dell’agenda riformista, occorre uscire dalla confusione politica con nuove elezioni prima possibile. Per nostra fortuna, il Capo dello Stato è pienamente consapevole dei rischi che correrebbe il paese rimanendo nell’incertezza per ancora un anno. Su di lui non faranno breccia le pressioni di chi vuole prolungare la legislatura per garantirsi il vitalizio oppure per promuovere le proprie ambizioni. Per quanto riguarda i sostenitori dell’agenda riformista, si tratta di lavorare subito per dare rappresentanza politica agli elettori del Sì, creando collegamenti con quei settori del No che pure si erano dichiarati favorevoli ad una riforma, anche se diversa da quella rifiutata. Non è scritto da nessuna parte che l’Italia non possa essere riformata. Anche se è bene ricordare ciò che diceva John Dewey, ovvero che riformare non è un’attività per gente debole di stomaco.