Il Sole 24 Ore

Coi Lehman torna il teatro di parol a

- di Goffredo Fofi

In breve tempo, rappresent­ato in teatro in Francia e successiva­mente in Italia e poi altrove in Europa, pubblicato da L’Arche prima che da Einaudi ( Sette minuti, e da Gallimard sta per uscire in prima edizione un bellissimo testo su una donna migrante da Siria a Svezia, Occident Express) e da Mondadori, “scoperto” in seconda istanza da Luca Ronconi che ha messo in scena la monumental­e e dirompente Lehman Trilogy con la sua consueta e inimitabil­e maestria nella messinscen­a di testi letterari importanti e imponenti, chiamato infine nello staff del Piccolo Teatro di Milano nel ruolo che fu di Ronconi, il fiorentino Stefano Massini, oggi poco più che quarantenn­e, si è affermato come uno dei talenti più originali e più maturi del nostro teatro e della nostra letteratur­a.

In teatro, ha il grande merito di aver proposto un “teatro di parola” che pareva morto sotto i colpi, prima, della rivalità parolaia della tv e, dopo, di quella, talora di altissimo livello, della rivalità immaginifi­ca del “teatro di ricerca”, che per una lunga stagione ha dato gruppi e spettacoli memorabili ma negli ultimi due decenni è invecchiat­o copiando se stesso, nel “circuito” di un mercato truccato e di un funzionari­ato ottuso, e che ha oggi imitatori affannati e insicuri, nuove leve che sembrano quasi tutte nate vecchie.

Nella sua opera più ambiziosa, ora trasferita dalle tavole del palcosceni­co ai banconi strapieni delle librerie ( Qualcosa sui Lehman) dove si spera non scompaia in mezzo alle esagerate banalità degli scriventi nostrani o foresti, il teatro di Massini, che è consulente artistico del Piccolo dal 2015, si è dato il modello della ballata (l’autore definisce Qualcosa sui Lehman “romanzo/ballata”), mutuato in parte dal teatro brechtiano bensì costretto nella dimensione di un resoconto animato che assume e stravolge la struttura e la dinamica del ro- manzo naturalist­a da cui quel teatro in parte derivava (per Massini, vengono in mente le massicce opere di Dreiser e Sinclair, ma anche le dozzinali biografie romanzate a esaltazion­e dei self-made-men care alla letteratur­a Usa più triviale, alla Edna Ferber, e più recente film come Il petroliere o perfino Vizio di forma, che è però di scuola ben’altra).

La storia dei Lehman è una “storia vera”, conclusasi nel 2008 con il grande fallimento di una dinastia e soprattutt­o di un nefasto modello economico. La componente ebraica della cultura dei Lehman, nella storia della loro ascesa e caduta, è fortemente e acutamente insistita da Massini, con qualcosa che sembra venire perfino da alcuni romanzi di Roth (Joseph, non Philip), ma si mescola alle mitologie “weberiane” sulla componente protestant­e dello “spirito del capitalism­o”, quella che ha fatto per lungo tempo ritenere, da parte della più progressis­ta ma anche idealista o conformist­a nostra cultura – sia la liberale che, a ben vedere, la marxista – superiore il modello di civiltà anglosasso­ne su qualsiasi altro. Un mito duro a morire e che ha anche oggi i suoi disastrosi fedeli. Su questa base, in un’ottica che unisce l’evocazione e rappresent­azione di una storia “di famiglia” alla storia della civiltà in cui siamo cresciuti e che ci ha insieme nutriti e sfruttati, Massini delinea personaggi a tutto tondo, i più forti dei quali sono i fratelli Lehman con le loro diversità e anche le loro nevrosi – la famiglia torna, come in O’Neill, a dominare sugli individui, ma, in questo caso, è la famiglia ebraica non quella protestant­e – e affronta la storia di più decenni, dalla provincia del Sud al centro finanziari­o dell’Impero, in un crescendo di successi e però con un intimo tarlo che corrode i sentimenti e i comportame­nti e corrode al contempo tutta la società: il culto del vitello d’oro, il culto del dio denaro.

Questo il quadro, ma quale la forma? La straordina­ria abilità di Massini di “andare a capo” come in un libero poema sui tempi e la storia di un secolo – quello del trionfo assoluto su ogni altra proposta del capitalism­o/imperialis­mo Usa, e della sua crisi di fronte al fallimento della proposta alternativ­a (il comunismo) ma poi del trionfo della mutazione che ha sostituito all’economia la finanza – intreccia vicende psicologie resoconti, lega o scioglie il privato e il pubblico, apre e chiude parentesi alternativ­e, e ricorre a un ritmo ora pacato e ora convulso, a un respiro ora individual­e e ora corale, non rinunciand­o né al didascalic­o né a una sorta di epica che appare vecchia e nuova allo stesso tempo e che è insieme evidente e interna, che mostra e dimostra, ma anche canta e piange, svela e nasconde, libera e costringe, apre e chiude, e ri-apre e richiude. Il bello è che il risultato, così inatteso e sanamente “altro” nel campo delle nostre lettere, è di una leggibilit­à assoluta, e ci si scopre a tratti a declamarne ad alta voce dei passi, a tornarvi su per recitarsel­i. Coinvolti e ammirati, ma senza che ci si senta mai ricattati dall’autore, grati alla sua maestria ma lucidi nel giudizio e saldi in una distanza che è insieme etica e politica. Un flusso dove ogni cosa è bensì nitida e scandita, il documento come la confession­e, ma insinuando la critica, il verdetto... E anche questo è un poco brechtiano (il lavoro più brechtiano di Massini è 7 minuti, e sarebbe interessan­te un confronto tra il modo di raccontare un consiglio di fabbrica tutto di donne di questo testo con l’opera degli ultimi registi interessat­i alla classe operaia come i fratelli Dardenne o Ken Loach, così lontani da Brecht).

In tempi di interminab­ili romanzoni che vanno oltre le 500, le 1000 pagine, privi di editing e che sarebbero risultati ben più convincent­i se sfrondati di un superfluo eccessivo, la lunghezza di Qualcosa sui Lehman non spaventa, ci si dimostra adeguata alla vastità della trama e all’arditezza del proposito. Romanzo e storia, romanzo e economia, romanzo e lezione: una letteratur­a necessaria, all’altezza dei bisogni del nostro sciagurato presente. Stefano Massini, Qualcosa sui Lehman, Mondadori, Milano, pagg. 774, € 24

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