Il Sole 24 Ore

Irrinuncia­bile tipaccio

Nelle «Lettere agli editori» l’autore del «Voyage» dà il meglio e il peggio di sé. Insulta tutti, consapevol­e del valore della sua opera, che è musica «e solo la musica è un messaggio dire tto al sistema nervoso»

- Di Ernesto Ferrero

er quanto sia probabilme­nte un tipaccio, è di sicuro un grande scrittore». Siamo nel maggio del 1951, e André Malraux scrive a Gaston Gallimard offrendosi di fare da tramite con l’Indegno per eccellenza, il dottor Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline, ricercato dal1’ aprile 1945 per « alto tradimento e intelligen­za con il nemico», imputazion­e che comportava la condanna a morte. Dopo otto anni di prigione e esilio in Danimarca il reprobo tornava in Francia grazie all’amnistia concessa agli ex- combattent­i della Grande Guerra, dove s’era guadagnato una medaglia al valore. Malraux coglieva il punto: esecrabile per il suo antisemiti­smo, così isterico da risultare autocarica­turale, come scrittore resta irrinuncia­bile.

A l ui Gallimard pensava dall’autunno 1947, consigliat­o da Jean Paulhan, che l’aveva sempre avuto in stima. Nel 1932 la N. R. F aveva mancato il Viaggio al termine della notte per pochi giorni, per colpa delle lentezze del lettore d’allora, Benjamin Crémieux, che nella sua scheda aveva parlato di un «romanzo comunista contenente episodi di guerra molto ben raccontati » . Robert Denoel era stato più svelto, ed era stato subito scandalo: non tanto per la virulenza anarcoide del dettato, per il disincanto feroce con cui inchiodava l’uomo del ’ 900 alle sue miserie, quanto per le rotture stilistich­e, che si facevano beffe delle scritture perbene da salotto buono. Era un inaudito jazz metropolit­ano, percussivo, eseguito su ogni materiale capace di produrre suono, fatto di slogature sintattich­e, di effrazioni provocator­ie, di un parlato che sembrava naturale proprio perché costruito artificial­mente con somma perizia.

Céline ne era consapevol­e con una lucidità sbalorditi­va. Ne troviamo un’ulteriore conferma nelle torrenzial­i Lettere agli edito- ri, amorevolme­nte curate da Martina Cardelli per Quodlibet: una vera ghiottoner­ia per célinofili. Duecentoci­nquanta pagine scelte ad hoc da vari volumi, principalm­ente le Lettres à la N.R.F. (1931-1961) e Lettres à Pierre Monnier (1948-1952), in cui il Ferdinand furieux dà il meglio e il peggio di sé. Tre sono le figure principali dei suoi corrispond­enti: il suddetto Denoel, e poi, morto lui assassinat­o in circostanz­e misteriose nel dicembre 1945, la sua compagna Jean Voilier che aveva preso in mano le redini della casa ( « stronza » e « troia navigata » ) ; l’illustrato­re Jean Monnier, che editore non è, ma da quando gli ha reso visita in Danimarca nel 1948 si è prodigato con dedizione commovente per farlo tornare in patria e ristampare i suoi capolavori; la Gallimard, nelle persone del patron, di Paulhan e di Roger Nimier, che negli ultimi anni si farà (molto abilmente) carico dei rapporti con quell’autore ingovernab­ile.

Presentand­o nel 1932 il dattiloscr­itto del Viaggio, Céline parlava di una «specie di sinfonia letteraria», addirittur­a, «pane per un intero secolo di letteratur­a». Si presentava come il «demolitore della porta di quella camera dove stagnava il romanzo fino al Voyage ». Spiegava che il vero scoglio nei romanzi è la noia e «questa cosa non credo sia noiosa. È un racconto abbastanza vicino a quello che si ottiene o si dovrebbe ottenere con la musica. Digression­i i n quantità, che a poco a poco entrano nel tema e alla fine lo fanno cantare come in un componimen­to musicale. La cosa può risultare presuntuos­a e oltremodo ridicola se il lavoro è fatto male. Giudicate voi. Per me è fatto bene. È così che io sento le persone e le cose. Peggio per loro. È un grande affresco, è populismo lirico, comunismo con l’anima, è licenzioso, dunque vivo. Crimine, delirio, dostoevski­smo, c’è di tutto qui dentro, per istruirsi e divertirsi».

Si proclama operaio maniacalme­nte attento al minimo dettaglio, alla virgola, ai fa-

| Louis-Ferdinand Céline nel 1943

mosi tre puntini di sospension­e. « Non aggiunga una sola sillaba senza avvertirmi » , intima a Denoel. Vuole copertine asciutte, austere, senza fronzoli. Propone rapporti freddament­e profession­ali, nessuna richiesta di simpatia o complicità: « Ho in odio tutto ciò che somiglia a intimità, amicizia, cameratism­o, eccetera. È un aspetto della vita che mi disgusta. Mi consideri un eccellente investimen­to, nulla di più, nulla di meno » .

Da bravo figlio di bottegai, è convinto che l’editore sia un bieco sfruttator­e, un ricco parassita che vive sulle spalle dell’autore, truffandol­o sul numero delle copie vendute. Contesta ogni rendiconto, chiede fatture ai tipografi, indaga personalme­nte. Quando torna a Parigi nel 1951, il « Gentile Amico » della prima lettera a Gaston lascia il posto a un diluvio di recriminaz­ioni furibonde, di insulti triviali: gli anticipi sono ridicoli, i vecchi libri non sono ristampati, quelli nuovi non si trovano e si vendono poco, non escono recensioni. Gli epiteti che Céline riserva a Gaston rivaleggia­no con quelli di

Gadda per Mussolini: vecchio cioccolata­io, imperatore, faraone dei premi l etterari, dannata cassaforte blaterante, maledetto ruffiano, compare Alibi, papa rosso frocio e gollista, gran nababbo, disastroso salumiere, bandito, coglionazz­o in capo, pagliaccio. Persino Paulhan, che lo ha sempre difeso e sostenuto, può diventare di volta in volta un povero servo, un vacanziero, un prousteggi­ante Landru o un Anemone languido. L’intera casa editrice è una assurda combriccol­a di somari presuntuos­i, bagnarola governata da cretini, sabba di falliti, coacervo di microcefal­i.

I due compaiono perfino come personaggi caricatura­li in D’un chateau l’autre da loro stessi pubblicato. Gaston è un «sordido salumiere implacabil­e, fronte bassa e coglione, che pensa solo ai quattrini». Paulhan ha la faccia molle a forma di vagina, una bocca da lumaca, è addirittur­a coprofilo. E la N.R.F diventa la «Revue Ponctuelle d’Emmerderie». In una sorta di sogno allucinato i due vengono spappolati a si sono schierati per i Borboni. Spera però assurdamen­te in un’impossibil­e monarchia liberale. «Ho visto l’entusiasmo con cui è stato accolto il nostro buon re e l’ho condiviso».

Intanto calcola e ricalcola il minimo necessario per sopravvive­re all’estero, lontano dalla giostra della vanità parigina. «La paura della povertà mi impedisce di godere degli ultimi scorci di Parigi». Gli sembrava di avere una «testa da macellaio italiano». Il frac alla moda, perfettame­nte tagliato, e i morbidi pantaloni di cachemire erano un corpo sostitutiv­o, in grado di reggere il confronto con gli altri. Ma bastava una macchia per intaccare quella costosa armatura di stoffa.

Non sapeva ancora che quella catastrofe che stava sconvolgen­do i suoi piani relegandol­o ai margini della storia sarebbe stata la sua salvezza. Lentamente l’osservator­e e il viveur avrebbero preso il posto dell’uomo d’azione e dell’ambizioso. «Nel bel mezzo di una crisi ho trovato la vera amicizia nelle donne; gli uomini sono troppo occupati dal loro naufragio». Non sapeva ancora che la solitudine tanto temuta sarebbe diventata lo specchio della sua opera. «Temo solo una cosa, che mio malgrado un po’ di fierezza mi colpi di remo da Caronte che se li porta via sulla sua barca.

Le lettere del dopoguerra sono un delirio di recriminaz­ioni, rancori, vittimismi, paranoie esilaranti. Sartre, che ha appena pubblicato contro di lui il pamphlet Ritratto di un antisemita, è un « lurido moccioso con l’hobby della sbronza», «un teppistell­o, le sue accuse per quanto balorde mi portano dritto dritto alla forca. Scrive male ma è un ottimo delatore». Rivendica astiosamen­te di essere l’innovatore che poi tutti hanno copiato, Miller come Gide, Genet (“spaventoso”), Dos Passos, Faulkner. Attacca gli stessi padri della patria: « Tutti quei romanzi compreso Balzac mi sembrano imposture, per non parlare di Gide o Proust! Sono schemi di romanzo per me, resta tutto da fare, l’essenziale, la resa emotiva! Ma loro opinano, dissertano, moralizzan­o, massimizza­no, e neanche un briciolo di musica. Solo la musica è un messaggio diretto al sistema nervoso. Il resto bla- bla. Gente che non ha il fisico per trasporre emotivamen­te. Bestie ignoranti, bestie manierate e alambiccat­e, sentenzian­ti. Ma pur sempre bestie, e narcisi. Tutti contenti dei loro abbozzi di romanzi. Contenti di sé. ... La critica è fatta apposta per blandire questi impotenti, per lusingarli, consolarli. Ne farei una carneficin­a! » .

Nel 1949 spiega a Paulhan: « In letteratur­a tutto è crollato dopo l’arrivo del cinema, ma gli scrittori non sembrano averlo previsto, ammesso, nulla di nulla. Ora senza rendersene conto fabbricano tutti trame di sceneggiat­ure. Anche i romanzi di Flaubert, Hugo, Loti, Balzac! Allora meglio il cinema, al romanzo resta un solo spazio: l’emotività diretta. Tutto il resto è occupato dal film, totalmente! Un tempo ( prima del film) si potevano chiedere al lettore sforzi di immaginazi­one che oggi rifiuta nel modo più assoluto » . Finchè nel 1955 il povero Paulhan, che aveva sopportato tutto «con relativa allegria » , si stufa e si defila: « Le sue lettere sono divertenti, come possono esserlo le lettere dei bambini o dei pazzi. Mi accorgo oltretutto che le sue lettere hanno smesso di divertirmi. Tutto ciò è ben triste, tutto sommato le volevo bene. Perché diavolo ha così cattivo carattere? »

Per dieci anni l’insonne Vociferant­e incazzoso bombarda Gaston per farsi accogliere nella Pléiade. Si chiede a « quale gang, quale nucleo, quale sinagoga, pisciatoio, partito, loggia dovrebbe appartener­e» per arrivare a tanto. Ci riuscirà pochi mesi prima della sua morte, il 1 luglio 1961. Ancora il giorno prima di accasciars­i sul tavolo di lavoro, detta a Gaston ( ridiventat­o « caro editore e amico » ) le condizioni per il romanzo che appena finito di scrivere, Rigodon, e lo minaccia: se non accetterà le sue proposte, noleggerà un trattore e andrà a sfondare la porta della N. R. F in rue Sébastien- Bottin.

Louis- Ferdinand Céline, Lettere agli editori, a cura di Martina Cardelli, Quodlibet, Macerata, pagg. 252, € 19

spinga a non vedere nessuno».

Mentre l’amore lo spinge qua e là in una corsa cieca, inizia a intuire la verità: «Io amo perché mi fa piacere». Non importa che si sbagli clamorosam­ente che la capriccios­a Angela Pietragrua, da lui ribattezza­ta nelle lettere la contessa Simonetta, lo maltratti e lo tradisca. Non importa che Métilde Dembowski non si innamori di lui. Quel che è essenziale è quello che avviene nella sua mente mentre da vero stalker, dopo essere stato invitato ad andarsene, continua a pattugliar­e la sua casa, cercando di intravvede­rla. Proprio lui, che ama tanto la verità, si convince che Métilde lo abbia respinto per un eccesso d’amore.

Quando, dopo la morte del detestato padre e il deludente testamento, torna a Parigi è molto cauto. «Vado per tastare me stesso e cercare di indovinare se, con 6000 franchi, mi conviene passare il resto della mia vita nelle vicinanze di Mme d’*** o della Scala».

Stendhal, Il Laboratori­o di sé. Corrispond­enza 1800-1806, 1807-1812, 1813 -1821, a cura di V.Sorbello, Aragno, Roma, 3 volumi, pagg. 673, 827, 787, € 105

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