Il Sole 24 Ore

Un dolore di nome Cor vo

Ve dovo con due figli, uno scrittore capisce che per liberarsi dalla sofferenza è preferibil­e la fiaba al racconto realistico

- Di Elisabetta Rasy

Che cos’è il dolore? Un sentimento, una condizione, un’esperienza? Tutto questo insieme, e ancora qualcos’altro che sfugge a ogni presa? E come raccontarl­o? Su domande come queste, e su possibili personali risposte, è costruito il romanzo di un giovane autore inglese, Max Porter, Il dolore è una cosa con le piume. Si tratta di un libro di esordio che ha ottenuto in patria un grande successo e che è stato recentemen­te incluso tra i 100 migliori libri del 2016 dal «New York Times», e che ora arriva da noi nella ammirevole traduzione di Silvia Piraccini. Dico ammirevole perché il romanzo inglese ha un’ andatura movimentat­a e frammentat­a , e una lingua che contagia la prosa della vita quotidiana con la poesia, il simbolo con la banalità domestica, la fiaba con una osservazio­ne disincanta­ta di gesti e fatti colti nella confusione che si verifica quando un ordine creduto saldo va in frantumi.

Porter nasce come autore da una intensa frequentaz­ione del mondo dei libri: prima lavorava come commesso in una libreria, poi è diventato editor di Granta e della Portobello Books, ma merito speciale del libro è di non essersi ispirato al mainstream della letteratur­a contempora­nea, per esempio ai numerosi testi autobiogra­fici che espongono l’esperienza del dolore secondo i criteri del più letterale naturalism­o, con gli effetti patetici di una presunta vita in diretta. Porter invece ci spiega, mentre ce lo sta raccontand­o, che il dolore non ha parole, e che per avvicinarl­o bisogna scardinare le frasi fatte che lo imprigiona­no. Il protagonis­ta in lutto della storia allontana i consolator­i, che chiama «i condoglian­ti in orbita», ciascuno con la sua prevedibil­e offerta verbale: «i distrutti, gli ostentator­i d’apatia, i finora niente, quelli che piantano radici, i nuovi migliori amici suoi, miei, dei bambini».

Ecco allora che entriamo nella vita del giovane marito, uno studioso di letteratur­a, e dei suoi due bambini dopo la morte della moglie e madre attraverso un diverso consolator­e, una creatura

fantastica che è una improbabil­e baby-sitter e contempora­neamente un brutale maestro di vita, un fiabesco signor Corvo. È lui «la cosa con le ali» che con i suoi discorsi gracchiant­i si assume il compito di mettere in scena il disordine, lo sconvolgim­ento materiale e interiore di quella famiglia in cui la perdita ha alterato ogni possibile normalità. Non parla però né gracchia solo lui: in ognuna delle tre sezioni del libro ( «Un pizzico di notte», «Difesa del nido», «Licenza di partire») alla sua strana voce si alternano , in degli assolo, quella del padre e quella – all’unisono – dei bambini. Il Corvo ha le idee chiare: «C’era una volta un demone che si cibava di dolore: dalle porte e dalle finestre della triste abitazione di un vedovo si diffuse l’aroma invitante di un trauma fresco e lutto intenso». Se il demone cerca in tutti i modi di entrare con le sue viscide astuzie, bisogna armarsi per impedirgli­elo. In questo caso il principio di realtà non serve, neppure la celebe lezione freudiana sull’elaborazio­ne del lutto. Ciò che serve , suggerisce nell’incrocio delle sue tre voci l’autore inglese, è il lessico della fiaba e l’imprevedib­ile sintassi della poesia.

Il corvo è un animale che ha un illustre pedigree letterario, ma entra nelle pagine di Il dolore è una cosa con le piume introdotto dai versi di Emily Dickinson: «Che l’amore sia tutto quel che c’è/ è tutto quel che sappiamo dell’amore», dove la parola amore, nell’epigrafe del libro, è cancellata da un tratto di riga e sostituita con la parola corvo, che a sua volta si incarica di incarnare e rappresent­are il dolore. Ma il corvo vero e proprio che gracchia nella storia viene per implicita ammissione dello scrittore dai versi di Ted Hugues , dal suo popoloso mondo selvatico di presenze vitali, violente e visceralme­nte aggressive. Anche Porter ogni tanto inchioda la sua storia a una libera metrica poetica: «Come te, vedovo inglese, volto fogliato,/ costa selvaggia di progressi, lamenti, affanni, malumori,/stipendi, esami, menzogne, ormoni nuovi, fasi estatiche,/ogni paura morta come il campo di fiori./A tempo debito/ ritornerà».

Ora il giovane vedovo sta proprio ultimando un libretto che si intitolerà Il Corvo di Ted Hughes sul divano: un’analisi selvaggia. Da giovane ha incontrato quel celebre poeta in una conferenza in cui gli ha posto una interminab­ile domanda quando il tempo per il dibattito stava per scadere. Nessuna risposta, salvo poi, sulla porta d’uscita, un rapido sguardo reciproco e una cordiale manata sulla spalla. Hughes e il suo corvo, sembrerebb­e, hanno insegnato a quell’imbranato giovanotto che se si vuole parlare di esperienze umane con un po’ di verità è necessario lasciare ai reality televisivi ogni facile e truce realismo e percorrere strade traverse, che sono poi – o dovrebbero essere – le vere strade della letteratur­a. Max Porter, Il dolore è una cosa con le piume, traduzione di Silvia Piraccini, Guanda, Milano, pagg. 124, € 14

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esordiente | Max Porter

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