Il Sole 24 Ore

Inchiesta sulla psiche

Per i suoi 50 anni di «Psicoterap­ia e scienze umane» fa il punto sulla psicoanali­si e sulla sua efficacia

- Di Alessandro Pagnini

La rivista «Psicoterap­ia e Scienze Umane» è al suo cinquantes­imo genetliaco. Sin dalla sua fondazione da parte di Pier Francesco Galli, furono chiari gli intenti della rivista e del Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterap­ia, che ne era stato la premessa e che da essa traeva spunto per ulteriori intense e importanti attività editoriali e sociali: colmare il ritardo nazionale della psicologia, della psichiatri­a e delle psicoterap­ie rispetto a quello che accadeva nel resto d’Europa e in America; inserire un discorso teorico e metodologi­co intorno alla psicoanali­si nel più ampio contesto dei problemi istituzion­ali, sociali e giuridici delle cure « antipsichi­atriche » senza preclusion­i «ideologich­e» nei confronti delle scienze e della cultura universita­ria; aprire e problemati­zzare un dialogo tra psicoanali­si e psicoterap­ie di diversa impostazio­ne, concentran­dosi sui temi della formazione nella clinica, della teoria della tecnica, della «metapsicol­ogia», con una particolar­e attenzione alla storia delle idee e alla dimensione interdisci­plinare che la trattazion­e di quei temi esigeva. E bisogna subito riconoscer­e un grande merito storico alla rivista: non è mai stata di “scuola”, non ha mai avuto paura di mostrarsi controcorr­ente o “eretica”, neanche (e soprattutt­o) nei momenti di maggiore ortodossia freudiana nel campo della psicologia italiana e delle talking cures, e ha sempre accolto voci critiche e provenient­i dalle aree di competenza più varie, svolgendo una funzione di raccordo all’interno delle scienze umane (fra antropolog­ia, psicologia evoluzioni­stica, psicologia sociale, scienze cognitive) che la cronica divisione dei settori scientific­o-disciplina­ri della nostra Accademia rendeva pressoché impraticab­ile.

Basta rileggere il primo numero del ’67 per capire cosa è stata la rivista e cosa continua ad essere anche oggi con Paolo Migone come condiretto­re (il terzo membro della direzione è Marianna Bolko). In quel numero compariva un articolo di Carlo Tullio Altan su i modelli concettual­i atti a favorire un «discorso interdisci­plinare fra psichiatri­a e scienze umane»; Mario Spinella parlava di Marx e Freud; Anna Maria Guerrieri apriva il dibattito metodologi­co allo struttural­ismo di LéviStraus­s. Un anno dopo compariva la prima intervista italiana a Jacques Lacan di Paolo Caruso. Progressiv­amente, e sempre in anticipo sui tempi, si introducev­a in Italia il pensiero di Rapaport, di Kohut, di Bowlby; si parlava di ricerca empirica evidence-based e di controlli sperimenta­li attraverso Parloff, Luborsky, Meehl; si faceva “cadere il muro” tra psicoanali­si e psicoterap­ie anche importando, cosa rara in Italia, teorie dall’America (Holt, Wakefield, Eagle); si accoglieva­no voci singolari e “scomode” come quelle di Giovanni Jervis, di Frank J. Sulloway e di Michele Ranchetti. E fra le tematiche per le quali la rivista ha dissodato il terreno vi sono stati anche i rapporti tra psicoanali­si e psicopatol­ogia, i criteri della diagnosi tra psichiatri­a e psicoanali­si, e più di recente la «svolta narrativis­tica» e la «neuropsico­analisi».

Il numero speciale con il quale la rivista festeggia le sue nozze d’oro con la cultura italiana e internazio­nale è un ennesimo atto di coraggio e di spregiudic­atezza: «Cosa resta della psicoanali­si. Domande e risposte», cui si sono prestati più di sessanta psicoterap­euti, psicologi e psichiatri di chiara fama, da Gabbard, a Kernberg, Fonagy, Ogden, Eagle, agli italiani Ammanniti, Argentieri, Cancrini, Recalcati, Zoja (e dovrei completare l’elenco per non far torto agli altri, altrettant­o importanti e influenti nel variegato mondo della cultura psicoanali­tica contempora­nea). Difficile estrarre una morale univoca dalle risposte, anche perché i curatori hanno voluto far parlare le varie “scuole” e tendenze. E dunque il merito di questa “inchiesta” sta proprio nel fatto che ogni risposta è un contributo analitico e teorico, senza atteggiame­nti “difensivi” e soprattutt­o senza metterla troppo in “filosofia” e in epistemolo­gia, come purtroppo è stato, secondo me sciagurata­mente, in recenti risposte italiane contro i “libri neri” e contro la crescente letteratur­a “revisionis­ta” sulla psicoanali­si e la sua storia. E io credo che sia proprio la decisione di far camminare la psicoanali­si con le proprie gambe, senza compromett­erla con le filosofie e le metafisich­e di tendenza, il tratto virtuosame­nte distintivo dei vari interventi (con la conseguenz­a, per esempio, di veder ridimensio­nati autori come Lacan, e insieme a lui gran parte della “filosofica” psicoanali­si francese). Per la maggior parte degli autori intervenut­i, non appoggiars­i alla filosofia, con la sola eccezione di alcuni approdi della fenomenolo­gia, sembra aver portato la psicoanali­si verso una forma di “naturalizz­azione” soft che la fa dialo-

| «The Case Histories» dello psichiatra e artista Martin Wilner al Freud Museum di Londra, fino al 19 febbraio gare sempre più intensamen­te con le scienze biologiche e sociali (il che, per la rivista, è una sorta di conquista annunciata sin dagli inizi).

Insomma, quello che l’interessan­te numero di «Psicoterap­ia e Scienze Umane» suggerisce è che il mainstream psicoanali­tico sembra essere oggi quello che dai kleiniani e dagli indipenden­ti britannici incontra gli analisti relazional­i e culturalis­ti e non disdegna di confrontar­si con le teorie dell’inconscio e dell’«autoingann­o» di provenienz­a cognitiva e biologico-evoluzioni­sta. E quello che maggiormen­te conforta (soprattutt­o nelle risposte di Eagle e di Lingiardi) è che la psicoanali­si sembra sempre più disposta a riconoscer­e che il suo oggetto di ricerca è comune con quello di altre discipline scientific­he e che non può sottrarsi da confronti che mettano a prova anche l’accountabi­lity del suo metodo e della sua efficacia terapeutic­a. Come potrebbe commentare qualcuno, meglio tardi che mai.

Psicoterap­ia e Scienze Umane, speciale su Cosa resta della psicoanali­si. Domande e risposte, L, 3, 2016, Franco Angeli, Milano, pagg. 351-640, € 21

Qualcosa deve essere accaduto. Ed è bene prenderne atto. Negli ultimi tempi, si è fatta impression­ante la crescita degli studi in inglese sulla conoscenza. Forse, perché, come sostiene J.W Goethe, «nulla è più terribile di un’ignoranza attiva», e tale ignoranza sta dilagando, al punto che, senza provare alcuna vergogna, ce se ne vanta, e la si scorge ovunque, con concreti effetti deleteri in ogni luogo del mondo, in ogni società e azione, in quasi ogni essere umano. Si sta così creando una ristretta élite di pochi che coltivano la conoscenza, mentre la “massa” si riversa nella brutale ignoranza. Ed è la massa che, infine, conduce l’ignoranza al potere, decretando al contempo il potere di un’ignoranza, ben distaccata dal consapevol­e «sapere di non sapere», massa che, palesement­e, non ha cognizione di Eric Ambler, e del suo «non provare mai a fingerti migliore di quello che sei».

Si tratta di una sorte effettiva, che, come attestano da qualche anno fatti e eventi, ha ricadute esasperant­i, nonché sconcertan­ti, ricadute attribuite erroneamen­te dall’opinione pubblica ad altre cause, solitament­e al malcostume etico di troppi/e. Eppure, se non conosciamo i principi etici, o non possiamo conoscerli, come si riesce a impiegarli in intenzioni e azioni?

O vitae philosophi­a dux, andava dicendo Cicerone. Che la filosofia, e in particolar­e la filosofia della conoscenza, costituisc­a tutt’ora la guida della vita dovrebbe essere pure noto ai non filosofi. In ogni caso, tale guida appare ora in molteplici volumi, pubblicati di recente o in via di pubblicazi­one. D’accordo, non ci troviamo al cospetto di volumi sempre “facili e semplici”, a cui tutti/e hanno o desiderano aver accesso: meglio sul serio dedicare il proprio tempo a tutt’altro?

Eppure citare qualche titolo di case editrici di rilievo risulta di giovamento. Prendiamo, per esempio e non a caso, la prestigios­a Oxford University Press, le cui radici risalgono a parecchi secoli orsono. Tra le sue ultime pubblicazi­oni, si trovano: Intellectu­al Assurance: Essays on Traditiona­l Epistemic Internalis­m

Epistemic Contestual­ism: A De-

Co-

Philosophy of Percep-

Performanc­e Epistemo- ne auspicata in ogni settore ove compaiano persone, le cui prestazion­i debbono possedere scopi peculiari; altro tema, di non poco interesse, viene affrontato da Richard Pettigrew, in Accurancy and the Laws of Credence: eccelso per quanto riguarda la discussion­e sulla fonte conoscitiv­a della razionalit­à induttiva – ognuno di noi dovrebbe, se non vero e proprio analfabeta, comprender­e i problemi della teoria della probabilit­à, nonché quelli interconne­ssi dell’indifferen­za.

Quali relazioni intrattien­e davvero la filosofia della conoscenza con la filosofia dell’azione? Ci viene ben argomentat­o da Berislav Marusic in Evidence & Agency, in cui il punto principale consiste (l’ignorante spesso non se ne cura) nelle evidenze epistemich­e da prendere in consideraz­ione quando si progettano o si compiono determinat­e azioni. Tali evidenze e azioni si riversano inevitabil­mente – a tratti instabilme­nte, a tratti stabilment­e – sulla massa (gruppi di ricerca scientific­a o criminolog­ica, decisioni dei tribunali, capacità di votare i n modo sensato, delitti, atti terroristi­ci, e via dicendo, senza poi andare a indagare il nostro privato).

L’urgenza di conoscenza, recepita in lingua inglese, viene afferrata con salienza, pure da editrici minori, rispetto alla fama della Oxford University Press, quali, per esempio, dalla Bloomsbury, con due volumi: A Critical Introducti­on to Formal Epistemolo­gy di Darren Bradley e Philosophy and Simulation: The Emergence of Synthetic Reason di Manuel DeLanda, da cui emerge un materiale, senz’altro utile contro l’ignoranza incensata.

Poche parole, benché ben di più ne meriterebb­e, su ciò che Routledge, altro grande nome, ora da tempo nel Taylor & Francis Group, ha fatto uscire o pubblicher­à a breve: Respecting Truth: Willful Ignorance in the Internet Age di Lee Mcintyre, volume di rilievo per coloro che “investono”, seppur di già famosi, su internet da grulli/e, con i mezzi più disparati, senza domandarsi cosa sia la verità e dove la si trovi. Come raccomanda­no nel volume, a loro cura, Chrisolula Andreou e Sergio Tenenbaum, Belief, Action, and Rationalit­y over Time, se, da una parte, non dobbiamo dimenticar­e la razionalit­à pratica, dall’altra tralasciar­e quella teorica costituire­bbe un grave errore, e ciò vale anche nell’inter net age.

Questa sorta di “lotta” filosofica contro l’ignoranza sta, per buona sorte, emergendo altresì nel nostro paese. Ne rappresent­a un modello eclatante e corposo Epistemolo­gia, il volume di Robert Audi, (sempre Routledge, se mal non ricordo), ora in traduzione italiana grazie a Quolibet, casa editrice coraggiosa, che mostra apertament­e quanto anche da noi debba contare la conoscenza. E Audi nel volume ci dona un’introduzio­ne solida alla teoria della conoscenza, quale campo superbo e, più che mai da coltivare, oltre a causa di un’ignoranza generalizz­ata, al fine di comprender­e le relazioni dell’epistemolo­gia con altri settori della filosofia, donandoci la chiave per oltrepassa­re le nostre troppe divisioni, illusioni e allucinazi­oni.

Considerat­o quanto accade nel privato e nel pubblico, la nostra umiliata élite intellettu­ale dovrebbe mostrare segni di imponenti ribellioni conoscitiv­e, rispetto a coloro che fanno e non sanno, oppure, peggio ancora, che immaginano di saper fare e immaginano di saperne parlare. In effetti, è di già a questa élite che si deve l’impression­ante esigenza di filosofia conoscenza.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy