Inchiesta sulla psiche
Per i suoi 50 anni di «Psicoterapia e scienze umane» fa il punto sulla psicoanalisi e sulla sua efficacia
La rivista «Psicoterapia e Scienze Umane» è al suo cinquantesimo genetliaco. Sin dalla sua fondazione da parte di Pier Francesco Galli, furono chiari gli intenti della rivista e del Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia, che ne era stato la premessa e che da essa traeva spunto per ulteriori intense e importanti attività editoriali e sociali: colmare il ritardo nazionale della psicologia, della psichiatria e delle psicoterapie rispetto a quello che accadeva nel resto d’Europa e in America; inserire un discorso teorico e metodologico intorno alla psicoanalisi nel più ampio contesto dei problemi istituzionali, sociali e giuridici delle cure « antipsichiatriche » senza preclusioni «ideologiche» nei confronti delle scienze e della cultura universitaria; aprire e problematizzare un dialogo tra psicoanalisi e psicoterapie di diversa impostazione, concentrandosi sui temi della formazione nella clinica, della teoria della tecnica, della «metapsicologia», con una particolare attenzione alla storia delle idee e alla dimensione interdisciplinare che la trattazione di quei temi esigeva. E bisogna subito riconoscere un grande merito storico alla rivista: non è mai stata di “scuola”, non ha mai avuto paura di mostrarsi controcorrente o “eretica”, neanche (e soprattutto) nei momenti di maggiore ortodossia freudiana nel campo della psicologia italiana e delle talking cures, e ha sempre accolto voci critiche e provenienti dalle aree di competenza più varie, svolgendo una funzione di raccordo all’interno delle scienze umane (fra antropologia, psicologia evoluzionistica, psicologia sociale, scienze cognitive) che la cronica divisione dei settori scientifico-disciplinari della nostra Accademia rendeva pressoché impraticabile.
Basta rileggere il primo numero del ’67 per capire cosa è stata la rivista e cosa continua ad essere anche oggi con Paolo Migone come condirettore (il terzo membro della direzione è Marianna Bolko). In quel numero compariva un articolo di Carlo Tullio Altan su i modelli concettuali atti a favorire un «discorso interdisciplinare fra psichiatria e scienze umane»; Mario Spinella parlava di Marx e Freud; Anna Maria Guerrieri apriva il dibattito metodologico allo strutturalismo di LéviStrauss. Un anno dopo compariva la prima intervista italiana a Jacques Lacan di Paolo Caruso. Progressivamente, e sempre in anticipo sui tempi, si introduceva in Italia il pensiero di Rapaport, di Kohut, di Bowlby; si parlava di ricerca empirica evidence-based e di controlli sperimentali attraverso Parloff, Luborsky, Meehl; si faceva “cadere il muro” tra psicoanalisi e psicoterapie anche importando, cosa rara in Italia, teorie dall’America (Holt, Wakefield, Eagle); si accoglievano voci singolari e “scomode” come quelle di Giovanni Jervis, di Frank J. Sulloway e di Michele Ranchetti. E fra le tematiche per le quali la rivista ha dissodato il terreno vi sono stati anche i rapporti tra psicoanalisi e psicopatologia, i criteri della diagnosi tra psichiatria e psicoanalisi, e più di recente la «svolta narrativistica» e la «neuropsicoanalisi».
Il numero speciale con il quale la rivista festeggia le sue nozze d’oro con la cultura italiana e internazionale è un ennesimo atto di coraggio e di spregiudicatezza: «Cosa resta della psicoanalisi. Domande e risposte», cui si sono prestati più di sessanta psicoterapeuti, psicologi e psichiatri di chiara fama, da Gabbard, a Kernberg, Fonagy, Ogden, Eagle, agli italiani Ammanniti, Argentieri, Cancrini, Recalcati, Zoja (e dovrei completare l’elenco per non far torto agli altri, altrettanto importanti e influenti nel variegato mondo della cultura psicoanalitica contemporanea). Difficile estrarre una morale univoca dalle risposte, anche perché i curatori hanno voluto far parlare le varie “scuole” e tendenze. E dunque il merito di questa “inchiesta” sta proprio nel fatto che ogni risposta è un contributo analitico e teorico, senza atteggiamenti “difensivi” e soprattutto senza metterla troppo in “filosofia” e in epistemologia, come purtroppo è stato, secondo me sciaguratamente, in recenti risposte italiane contro i “libri neri” e contro la crescente letteratura “revisionista” sulla psicoanalisi e la sua storia. E io credo che sia proprio la decisione di far camminare la psicoanalisi con le proprie gambe, senza comprometterla con le filosofie e le metafisiche di tendenza, il tratto virtuosamente distintivo dei vari interventi (con la conseguenza, per esempio, di veder ridimensionati autori come Lacan, e insieme a lui gran parte della “filosofica” psicoanalisi francese). Per la maggior parte degli autori intervenuti, non appoggiarsi alla filosofia, con la sola eccezione di alcuni approdi della fenomenologia, sembra aver portato la psicoanalisi verso una forma di “naturalizzazione” soft che la fa dialo-
| «The Case Histories» dello psichiatra e artista Martin Wilner al Freud Museum di Londra, fino al 19 febbraio gare sempre più intensamente con le scienze biologiche e sociali (il che, per la rivista, è una sorta di conquista annunciata sin dagli inizi).
Insomma, quello che l’interessante numero di «Psicoterapia e Scienze Umane» suggerisce è che il mainstream psicoanalitico sembra essere oggi quello che dai kleiniani e dagli indipendenti britannici incontra gli analisti relazionali e culturalisti e non disdegna di confrontarsi con le teorie dell’inconscio e dell’«autoinganno» di provenienza cognitiva e biologico-evoluzionista. E quello che maggiormente conforta (soprattutto nelle risposte di Eagle e di Lingiardi) è che la psicoanalisi sembra sempre più disposta a riconoscere che il suo oggetto di ricerca è comune con quello di altre discipline scientifiche e che non può sottrarsi da confronti che mettano a prova anche l’accountability del suo metodo e della sua efficacia terapeutica. Come potrebbe commentare qualcuno, meglio tardi che mai.
Psicoterapia e Scienze Umane, speciale su Cosa resta della psicoanalisi. Domande e risposte, L, 3, 2016, Franco Angeli, Milano, pagg. 351-640, € 21
Qualcosa deve essere accaduto. Ed è bene prenderne atto. Negli ultimi tempi, si è fatta impressionante la crescita degli studi in inglese sulla conoscenza. Forse, perché, come sostiene J.W Goethe, «nulla è più terribile di un’ignoranza attiva», e tale ignoranza sta dilagando, al punto che, senza provare alcuna vergogna, ce se ne vanta, e la si scorge ovunque, con concreti effetti deleteri in ogni luogo del mondo, in ogni società e azione, in quasi ogni essere umano. Si sta così creando una ristretta élite di pochi che coltivano la conoscenza, mentre la “massa” si riversa nella brutale ignoranza. Ed è la massa che, infine, conduce l’ignoranza al potere, decretando al contempo il potere di un’ignoranza, ben distaccata dal consapevole «sapere di non sapere», massa che, palesemente, non ha cognizione di Eric Ambler, e del suo «non provare mai a fingerti migliore di quello che sei».
Si tratta di una sorte effettiva, che, come attestano da qualche anno fatti e eventi, ha ricadute esasperanti, nonché sconcertanti, ricadute attribuite erroneamente dall’opinione pubblica ad altre cause, solitamente al malcostume etico di troppi/e. Eppure, se non conosciamo i principi etici, o non possiamo conoscerli, come si riesce a impiegarli in intenzioni e azioni?
O vitae philosophia dux, andava dicendo Cicerone. Che la filosofia, e in particolare la filosofia della conoscenza, costituisca tutt’ora la guida della vita dovrebbe essere pure noto ai non filosofi. In ogni caso, tale guida appare ora in molteplici volumi, pubblicati di recente o in via di pubblicazione. D’accordo, non ci troviamo al cospetto di volumi sempre “facili e semplici”, a cui tutti/e hanno o desiderano aver accesso: meglio sul serio dedicare il proprio tempo a tutt’altro?
Eppure citare qualche titolo di case editrici di rilievo risulta di giovamento. Prendiamo, per esempio e non a caso, la prestigiosa Oxford University Press, le cui radici risalgono a parecchi secoli orsono. Tra le sue ultime pubblicazioni, si trovano: Intellectual Assurance: Essays on Traditional Epistemic Internalism
Epistemic Contestualism: A De-
Co-
Philosophy of Percep-
Performance Epistemo- ne auspicata in ogni settore ove compaiano persone, le cui prestazioni debbono possedere scopi peculiari; altro tema, di non poco interesse, viene affrontato da Richard Pettigrew, in Accurancy and the Laws of Credence: eccelso per quanto riguarda la discussione sulla fonte conoscitiva della razionalità induttiva – ognuno di noi dovrebbe, se non vero e proprio analfabeta, comprendere i problemi della teoria della probabilità, nonché quelli interconnessi dell’indifferenza.
Quali relazioni intrattiene davvero la filosofia della conoscenza con la filosofia dell’azione? Ci viene ben argomentato da Berislav Marusic in Evidence & Agency, in cui il punto principale consiste (l’ignorante spesso non se ne cura) nelle evidenze epistemiche da prendere in considerazione quando si progettano o si compiono determinate azioni. Tali evidenze e azioni si riversano inevitabilmente – a tratti instabilmente, a tratti stabilmente – sulla massa (gruppi di ricerca scientifica o criminologica, decisioni dei tribunali, capacità di votare i n modo sensato, delitti, atti terroristici, e via dicendo, senza poi andare a indagare il nostro privato).
L’urgenza di conoscenza, recepita in lingua inglese, viene afferrata con salienza, pure da editrici minori, rispetto alla fama della Oxford University Press, quali, per esempio, dalla Bloomsbury, con due volumi: A Critical Introduction to Formal Epistemology di Darren Bradley e Philosophy and Simulation: The Emergence of Synthetic Reason di Manuel DeLanda, da cui emerge un materiale, senz’altro utile contro l’ignoranza incensata.
Poche parole, benché ben di più ne meriterebbe, su ciò che Routledge, altro grande nome, ora da tempo nel Taylor & Francis Group, ha fatto uscire o pubblicherà a breve: Respecting Truth: Willful Ignorance in the Internet Age di Lee Mcintyre, volume di rilievo per coloro che “investono”, seppur di già famosi, su internet da grulli/e, con i mezzi più disparati, senza domandarsi cosa sia la verità e dove la si trovi. Come raccomandano nel volume, a loro cura, Chrisolula Andreou e Sergio Tenenbaum, Belief, Action, and Rationality over Time, se, da una parte, non dobbiamo dimenticare la razionalità pratica, dall’altra tralasciare quella teorica costituirebbe un grave errore, e ciò vale anche nell’inter net age.
Questa sorta di “lotta” filosofica contro l’ignoranza sta, per buona sorte, emergendo altresì nel nostro paese. Ne rappresenta un modello eclatante e corposo Epistemologia, il volume di Robert Audi, (sempre Routledge, se mal non ricordo), ora in traduzione italiana grazie a Quolibet, casa editrice coraggiosa, che mostra apertamente quanto anche da noi debba contare la conoscenza. E Audi nel volume ci dona un’introduzione solida alla teoria della conoscenza, quale campo superbo e, più che mai da coltivare, oltre a causa di un’ignoranza generalizzata, al fine di comprendere le relazioni dell’epistemologia con altri settori della filosofia, donandoci la chiave per oltrepassare le nostre troppe divisioni, illusioni e allucinazioni.
Considerato quanto accade nel privato e nel pubblico, la nostra umiliata élite intellettuale dovrebbe mostrare segni di imponenti ribellioni conoscitive, rispetto a coloro che fanno e non sanno, oppure, peggio ancora, che immaginano di saper fare e immaginano di saperne parlare. In effetti, è di già a questa élite che si deve l’impressionante esigenza di filosofia conoscenza.