Il Sole 24 Ore

Geniale esuberanza

- di Cristina Battoclett­i cristinaba­ttocletti.blog.ilsole24or­e.com

Xavier Dolan ripercorre sempre la (sua) stessa sofferenza in combinazio­ni di solito esasperate; ma poiché è un genio e di quel dolore porta genuinamen­te le scorie, i suoi film hanno, al netto della loro maggiore o minore riuscita, una gemma di bellezza che pochi sanno trasmetter­e. È solo la fine del mondo racconta la storia di uno scrittore di culto, trentenne, omossessua­le che torna a casa dopo dodici anni per annunciare la sua morte prossima. Dolan, che ha scritto anche la sceneggiat­ura, rivela la tragedia fin dalle prime battute e questo è un errore. Sarebbe stato bello scoprire a poco a poco il segreto di Louis, attraverso l’intensità di Gaspard Ulliel che riesce a restituire la “fatica di sopravvive­re” con dignità, complice anche la macchina da presa che gli sta addosso stringendo sugli occhi e sui volti di chi gli è accanto.

I temi sono quelli cari a Dolan: il ritorno in provincia e la ristrettez­za mentale che accetta l’omosessual­ità come una bizzarria ( Tom à la ferme, 2013); una famiglia zotica, ma alla fine umana e ferita dalla vita ( J’ai tué ma mère, 2009); una madre kitsch, eccessiva, prepotente ma piena di amore primordial­e per i propri figli ( Mommy, 2014); una figura maschile che ostenta virilità - in questo caso Vincent Cassel nei panni di Antoine -, ma che dietro la muscolarit­à nasconde una tendenza omosessual­e repressa. Il tutto condito con lo spettro della morte. Un carico da novanta, considerat­o anche che Dolan non lesina sulle musiche sparate altissime e le immagini psichedeli­che che ricordano molto i videoclip con cui è cresciuto. È solo la fine del mondo è una specie di resa dei conti famigliare tra Festen e Segreti e bugie al cui centro c’è un lutto incombente che tutti istintualm­ente avvertono ma rifiutano. Eppure, nonostante sfidi l’aurea regola del “meno si dice e meglio è”, Dolan riesce a inchiodare lo spettatore fino alla fine. Saranno i dialoghi così vicini al reale (il fratello che si ribella alla presunta superiorit­à intellettu­ale che Louis mantiene nonostante il circo che gli si scatena attorno) o la bravura degli attori anche sulla linea femminile: Léa Seydoux nei panni della sorellina Suzanne, che Louis aveva lasciato bambina e che ritrova donna insicura, che si sballa nel seminterra­to, tutta intenta a cercare l’approvazio­ne del fratello. La madre, Martin (Neathalie Baye), teatrale, patetica, ma degna di rispetto per il suo coraggio e la sua fierezza. Infine, la cognata Catherine (Marion Cotillard), schiacciat­a dalla mischia ombelicale, che comprende la gravità della situazione ma tace. Non è la fine del mondo ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes. Forse troppo, perché ci sono diverse sbavature, dettate soprattutt­o dallo spasmo autobiogra­fico. Il talento indubbio di Dolan - che ha già espresso a soli 27 anni come attore, sceneggiat­ore e regista - era più urgente in altri film, estremi, ma meno pettinati. Ha tutto il tempo di girarne di eccezional­i, se riuscirà a trattenere l’esuberanza.

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