Bella Butterfly in abito lungo
Ottima esecuzione alla prima della Scala dell’opera pucciniana, anche se la versione tagliata ha i suoi pregi. Bene la regia di Hermanis
stato un bel successo Butterfly , in un 7 dicembre di cui tutti sono entusiasti. Evviva. Di mano esperta la regia di Hermanis, buono il cast, vigorosa la concertazione di Chailly, con un finale di morte, tra voce, timpani e pause, drammaticissimo. Ma – resti tra noi – l’opera di Puccini non è sconosciuta. Alla Scala se ne è parlato come di rivelazione, dimenticando le 240 precedenti recite, in questo teatro, capeggiate da quella del 24 novembre del 1925, diretta da Toscanini, per celebrare il compositore a un anno dalla morte. Dunque ha vinto Butterfly. Non la prima Butterfly .
La versione del debutto di Butterfly, recuperata dopo 112 anni, con scelta interessante, per conferire originalità all’apertura di stagione scaligera, non risultava all’ascolto di peso tale da far parlare di partitura nuova. Non siamo, per fare un paragone, alla stesura prima e seconda di Traviata di Verdi. Là sì, decisamente modificata. Qui siamo invece a lavoretti di fino, di ricamo: di magistrale perizia. Il taglia e cuci di una filastrocca (di lei, dello zio ubriaco), l’allungo di un dialogo, che però non modificano la sostanza complessiva. Da autentico compositore della modernità, Puccini è geniale nel cambiamento impercettibile, sottile, continuo, nervoso.
Dunque la mutazione più vistosa, la sera di Sant’Ambrogio, stava nella divisione in due atti anziché nei soliti tre ( per la gioia del pubblico della prima, che ama gli intervalli). Ma il Coro a bocca chiusa è un colpo di genio che merita una chiusura di sipario, un silenzio, il buio di una notte. E il Preludio sinfonico che segue è un meraviglioso punto e a capo. Dunque meglio in tre.
Col privilegio di arrivare ultimi, per non annoiare il lettore ecco subito qualche pecca di questa produzione. Minuzie. Ma visto che la Scala è stata definita un “brand”, certi dettagli non le possono appartenere. Stona sempre, ad esempio, la dissacrazione del palcoscenico: prima che si apra il sipario, prima dell’inizio dell’opera, nessuno dovrebbe uscire, con foglietto in mano, a raccontare qualcosa. Perché quello lì è solo il luogo dell’arte. Del silenzio delle parole. Prima che Chailly attacchi la Butterfly non dobbiamo dunque vedere il sovrintendente Pereira che spunta tra le quinte per leggere il messaggio augurale del Presidente della Repubblica. Invocando come un banditore l’applauso del pubblico. No, alla Scala no.
Poi non si è capita la ragione dell’esecuzione dell’Inno , di rito solo in presenza della più alta carica dello Stato. Poi ha stupito – subito ad apertura di sipario – la presenza della capottina del maestro suggeritore: ohibò ritornata alla Scala? e su Butterfly? Fa teatro di provincia, non da 7 dicembre ( e date seguenti). Poi – ultimo – va bene che Pinkerton è un tenente della marina degli U.S.A., ma se canta Puccini bisogna che qualcuno gli insegni la pronuncia: “l’ale” non è “l’alle”, “sola” non diventa “solla”, etc. A proposito di U. S. A., nella prima pagina del bel programma di sala è uscitO filologicamente S. U. A. ( par condicio, anche per Sharpless). E “I versione” si scrive così. Non “Ia versione”, come si legge nella grande locandina gialla. Fine delle correzioni, rosse e blu. Da molti è stata criticata la regia di Alvis Hermanis, soprattutto vista in tv, dove troneggiavano i primi piani. In teatro invece questo era un allestimento pensato in verticale, costruito su pannelli scorrevoli, dove il Giappone veniva evocato ( anche nei kimono giganti) e non copiato. Anzi, proprio il saliscendi appariva una firma più nordica che orientale. E i riquadri di carta di riso apparivano più intensi quando lasciati bianchi, come quadri di Mondrian, piuttosto che affollati di proiezioni di geishe o di fiori. Il secondo piano della “casa a soffietto” abitato dalle bambine-farfalle, future Cio-CioSan, coi movimenti sofferti di Alla Sigalova, creava un controcanto efficace alla scena nel primo. L’invettiva dello zio Bonzo, messo in alto, al terzo, di questo oppressivo condominio ( non nipponico) mostrava un uso originale dello spazio scenico.
Più discutibile era invece l’evoluzione di Butterfly nel secondo atto, vestita in abito occidentale, da Čechov, intenta a cucire a macchina, col quadretto di Gesù alla parete. Ma da elogio la tecnologia di palcoscenico nel far sparire tutta la mobilia, per far posto a cinque alberelli di ciliegi. E perfetto il bambi- no nei giochi tra i petali (sei anni, meritava il nome in locandina), anche lui protagonista del contrasto tra gestualità da kabuki manierato e movenze da teatro classico occidentale. Questa cornice visiva, ancora esemplare di un teatro di prima classe, con le scene di Leila Fteita, i costumi disegnati da Krist ne Jurj ne realizzati nei laboratori Scala, le meravigliose parrucche di Tiziana Libardo, raccoglieva un cast senza nomi di punta, ad eccezione dello splendido Sharpless di Carlos Alvarez, ma omogeneo. La Butterfly di Maria José Siri puntava sulla dolcezza di suoni chiari, il Pinkerton di Bryan Hymel giocava su slanci tenorili guasconi e sorridenti. Trasversale, usciva un buon comprimariato, di squadra, con efficaci intrecci di canto di conversazione: questo sì, a rivelare il tratto originale e nuovo del teatro di Puccini. Stanato anche in orchestra da Chailly, con gestualità vistosa e canto insieme ai solisti (“Un bel dì vedremo” compreso), con un’orchestra in bello spolvero, portamenti agli archi e sbalzo delle invenzioni timbriche eccentriche, di uccellini e gong.
Madama Butterfly di Puccini; direttore Riccardo Chailly, regia di Alvis Hermanis; Teatro alla Scala, fino al 8 gennaio
| Maria José Siri è Butterfly