Il Sole 24 Ore

Il raìs spinge il Paese a Est ma il portafogli­o resta a Ovest

- Alberto Negri

L’Europa e la Nato stanno perdendo la Turchia? Gli attentati nell’ultimo anno tra Istanbul e Ankara ricordano più Baghdad che un Paese con un’economia affluente che si proponeva come modello di democrazia nel mondo musulmano. Giovane ufficiale in viaggio verso Parigi, all’inizio del secolo scorso Mustafà Kemal Ataturk gettò simbolicam­ente dal finestrino del treno il fez e quando giunse al potere nel 1923 liquidò la legge islamica e il Califfato, tagliando i legami con il Medio Oriente. Il suo laicismo autoritari­o rimpiazzò la religione con un iper-nazionalis­mo che dopo la sua scomparsa condusse all’ingresso nella Nato ma anche a tre colpi di stato militari, nel 1997 a un golpe “bianco”, fino a quello fallito del luglio scorso.

Quando si parla di autoritari­smo in Turchia occorre ricordare il passato, che non giustifica il pugno di ferro del presidente Erdogan ma spiega perché gran parte del Paese più conservato­re lo segue e da 14 anni vota il partito musulmano Akp. In Turchia migliaia di funzionari pubblici, militari e magistrati sono stati fatti fuori e ci sono dietro le sbarre 150 giornalist­i, un record mondiale che però non ha visto grandi proteste e come conseguenz­a per la Turchia avrà probabilme­nte il congelamen­to dei negoziati di adesione alla Ue, prospettiv­a cui per altro nessuno credeva più né ad Ankara né a Bruxelles. Con l’accordo sui migranti il presidente turco mantiene la sua arma di ricatto con l'Europa e questo gli basta per entrare in un “secondo cerchio” di alleati, come prospetta il presidente della Commission­e Europea Junker.

Non è un caso che Erdogan per far passare in Parlamento la riforma costituzio­nale, che elimina la figura del premier e accentra nelle sue mani il potere, si sia alleato con l’Mhp, l’erede dell’estrema destra nazionalis­ta dei Lupi Grigi. Come Ataturk, anche Erdogan vuole restare “un uomo solo al comando” e ha bisogno dei nazionalis­ti per condurre un dura repression­e nei confronti dei curdi e di ogni minoranza fuori dal coro.

Se il colpo di stato del 15 luglio gli ha permesso la resa dei conti con l’ex alleato Fethullah Gulen, adesso l’attentato di Istanbul, rivendicat­o dai gruppi curdi radicali, gli consentirà di tenere fuori dal Parlamento il partito Hdp di cui ha già messo in carcere il leader Salahattin Demirtas. Come tutti, i rais sfrutta con cinismo i tentativi di destabiliz­zazione: questa abilità ne fa un uomo pericoloso, capace di amalgamare consensi in un’opinione pubblica che lo ritiene l’unico capace di difendere il Paese. All’autorità si deve obbedienza anche quando è tirannica, è nel codice culturale dei turchi.

Al prezzo di importare i problemi della regione, per esempio con l’avventura in Siria contro Assad - avallata dall’ex segretario di Stato Usa Hillary Clinton - la Turchia di Erdogan sta attuando il più significat­ivo riallineam­ento geopolitic­o di questi tempi. La Turchia è diventata un altro angolo del tormentato e sanguinoso Medio Oriente. Insieme al terrorismo dell’Isis, in aggiunta a quello curdo, ha importato intolleran­za, autocrazia, repression­e, gli stessi mali che affliggono questa parte essenziale del mondo. È ridiventat­o amico del presidente russo Putin, vuole entrare insieme a Cina e Russia nell'accordo di Shangai con Paesi che non pretendono credenzial­i democratic­he e può mettersi d’accordo anche con un islamofobo come Trump, il cui consiglier­e per la Sicurezza nazionale, l’ex generale Michael Flynn, prima ha appoggiato i golpisti e poi si è detto favorevole a estradare Gulen in Turchia. Con questo tipo di leader a Est e a Ovest fare previsioni comunque non è facile.

Dov’è vulnerabil­e questa Turchia? Erdogan è un uomo solo al comando ma con i conti in disordine. La lira affonda, ha dovuto chiedere di convertire in moneta locale i conti in valuta: l’appello “all’oro alla patria” ha avuto successo mediatico ma un miliardo di dollari ha già preso il volo. Il turismo è crollato di un terzo ed è stato annunciato un fondo da 70 miliardi di euro di sostegno alle piccole e medie imprese indebitate a breve per 210 miliardi. Il 45% dell’export turco è diretto in Europa, il 7,5% in Asia. Se Erdogan vuole lanciarsi a Est non troverà vita facile.

Da dove vengono i soldi di un boom che si sta sgonfiando? Dal 2002, inizio dell’era Akp, il 75% degli investimen­ti esteri in Turchia è arrivato dall'Europa. Non solo. Il 70% dei debiti privati sono stati contratti qui, in particolar­e con la City di Londra. Questo deve far meditare perché peggio di un raìs autoritari­o c’è solo un altro raìs ma senza soldi: il cuore è Oriente ma il portafogli­o sta ancora a Ovest.

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