Renzi: subito il congresso, le elezioni sono imminenti Speranza evoca la scissione
La sinistra si tiene le mani libere nelle votazioni in Aula
pLa mattina in direzione del Pd, a ricordare l’orizzonte del voto per chi si fosse distratto con la nascita del governo Gentiloni («io sono per fare il congresso e su questo deciderà l’assemblea domenica, ma sapendo comunque che c’è un appuntamento imminente con le elezioni, perché è evidente che nell’arco dei prossimi mesi andremo alle elezioni politiche»); la sera al Palazzo Chigi, a giuramento del governo Gentiloni terminato, per il tradizionale passaggio della campanella con il suo successore. Mano sul cuore, sorrisi baci e abbracci tra i due, il dono da parte di Renzi della «felpa di Amatrice che mi ha regalato il sindaco di Amatrice qualche settimana fa» a ricordare l’impegno della ricostruzione post-terremoto. Infine Matteo Renzi lascia la sede di Palazzo Chigi tra gli applausi dei ministri augurando a tutti «buon lavoro». Ecco, nel giorno in cui nasce il governo presieduto da Paolo Gentiloni con molte riconferme, tanto da attirarsi subito il “soprannome” di governo-fotocopia, se c’è una discontinuità che il racconto renziano vuole sottolineare è quello con l’ultima volta in cui due premier, l’uscente e l’entrante, si sono scambiati la campanella: quando lui stesso subentrò ad Enrico Letta, Un passaggio come è noto molto traumatico e non del tutto assorbito dal Pd, immortalato quasi tre anni fa dalla faccia scurissima di Letta.
L’uscita di scena di Renzi è naturalmente un’uscita di scena per modo di dire. Che già domenica 18 dicembre, nell’assemblea del Pd, il leader lancerà la sua proposta di un congresso sprint per tenere molto aperta la finestra elettorale di primavera: da fine marzo a giugno, basta che non si superi giugno. Come anticipato ieri dal Sole 24 Ore, la data per le primarie aperte che chiuderanno il percorso congressuale del Pd è già fissata nella mente di Renzi ed è il 26 febbraio. Per il resto il leader del Pd ha tracciato le linee della discussione che dovrebbe avere la prossima assise dem: «Certo che dobbiamo aprire una riflessione dopo il 4 dicembre, ma se si dice che il 59% dei No sono contro il governo allora il 41% sono per noi... Non è questo il piano della discussione. Noi il 40% lo abbiamo preso davvero, alle europee, mentre la parte del partito che si è autoeletta a rappresentante della sinistra il 40% lo ha visto col binocolo». E ancora: «Al congresso il Pd dovrà discutere di tutto, anche di come si sta insieme, anche della lealtà che reciprocamente ci si deve assicurare». Per la minoranza bersaniana del Pd aveva parlato prima di Renzi Roberto Speranza, arrivato anche ad evocare la scissione: «Renzi ci dica se non c’è più spazio nel Pd per per chi ha votato No al referendum». E la divisione, classicamente verrebbe da dire visti i quasi tre anni del governo Renzi, si sposta dal partito al governo: in un documento portato in direzione ma non messo ai voti la minoranza bersaniana guidata da Speranza chiede «discontinuità» nelle politiche economiche e sociali e in sostanza rivendica le mani libere sui singoli provvedimenti pur assicurando il voto di fiducia di oggi. «La stabilità la garantiamo perché siamo responsabili, ma sui provvedimenti ci devono convincere», sintetizza Pier Luigi Bersani. Tra le mani libere della minoranza del Pd e quelle altrettanto libere (o minacciate tali) dei verdiniani la risposta renziana è la stessa: «Noi non abbiamo paura del voto». Sottinteso: vedete un po’ voi...
BERSANI E IL GOVERNO L’ex segretario: «La stabilità la garantiamo perché siamo responsabili ma sui provvedimenti ci devono convincere»