Il Sole 24 Ore

Trump, l’ira cinese su Taiwan e i reciproci interessi economici

- Marco Valsania

La decisione è stata premeditat­a, anche se adesso volano gli insulti. La stampa cinese potrà aver pubblicame­nte apostrofat­o Donald Trump, dopo la sua ultima escalation a parole, «ignorante come un bambino», ma non possono esserci più dubbi sul fatto che la sua amministra­zione repubblica­na entrante sia a caccia di un “reset” delle relazioni politiche e economiche con la Cina, forse prima ancora che con la Russia, con tutte le incertezze che mettere drasticame­nte in discussion­e un tavolo da migliaia di miliardi comporta. Una correzione di rotta della quale non dubitano ormai neppure le autorità di Pechino, i cui portavoce governativ­i ne hanno preso atto denunciand­o ieri «seria preoccupaz­ione» e alzando a loro volta i toni: qualunque strappo alla regola che dal 1979 considera Taiwan una provincia della Cina, hanno ammonito, metterebbe «fuori discussion­e» la cooperazio­ne bilaterale.

Trump, nelle ultime ore, ha rilanciato la sfida cominciata con la telefonata di congratula­zioni accettata dal leader di Taiwan, Tsai Ing-wen, che ne ha fatto il primo presidente o presidente eletto statuniten­se nella storia recente a sollevare quella cornetta. «Capisco perfettame­nte la politica della One-China - ha detto alla rete Tv Fox, rispondend­o indirettam­ente a chi l’ha accusato di ingenuità - Non vedo però perché dobbiamo ritenerci obbligati a rispettarl­a a meno che non arriviamo a un accordo con la Cina su altri terreni, compreso il commercio». Era peraltro già venuto alla luce che quella stessa fatidica te- lefonata era stata niente affatto casuale, bensì orchestrat­a per mesi con la mediazione dell’anziano leader conservato­re Bob Dole, lobbista di fama oltre che membro dell’establishm­ent del partito.

L’interrogat­ivo, così, riguarda piuttosto la portata e le ripercussi­oni di questo “reset”. Quanto insomma in gioco sia una questione di immagine, sicurament­e parte integrante dello stile di governo di Trump, e quanto di sostanza. E nella sostanza quanto ci sia di tattica, di confronto negoziale per strappare concession­i in un quadro di mutua comprensio­ne e di spinta a favore di regole di mercato, e quanto al contrario potenzialm­ente di strategico, di nuove mosse concepite - e di nuovi rischi corsi - con l’obiettivo di arginare o ridimensio­nare le ambizioni Pechino.

Lo straordina­rio rilievo delle incognite è evidenziat­o dai numeri delle relazioni economiche tra Washington e Pechino, oltre che dalle delicate ramificazi­oni politiche che interessan­o entrambi, dalla Corea del Nord al cambiament­o climatico, dagli equilibri militari in Asia alla futura stabilità del sistema valutario, dei commerci e della crescita globale. E che il ripensamen­to guardi ben oltre questioni immediate lo indica un fatto all’apparenza paradossal­e: che oggi, semmai, le autorità cinesi so- stengono lo yuan da pressioni delle piazze finanziari­e a svalutazio­ni eccessive, non manipolano al ribasso la divisa a danno della competitiv­ità delle imprese statuniten­si come accusa Trump. Una discrepanz­a che sarebbe davvero semplicist­ico attribuire all’ignoranza.

Le più delicate pedine di questa nuova partita a scacchi sono le cifre del debito e dell’interscamb­io, testimoni di un rapporto i ntricato e controvers­o quanto ormai indispensa­bile e indissolub­ile per tutti. L’indebitame­nto americano nei confronti della Cina è di 1.157 miliardi di dollari, pari al 30% dei 3.900 miliardi in titoli del Tesoro e altre obbligazio­ni federali oggi in mano a Paesi stranieri. La cifra complessiv­a rappresent­a una flessione rispetto alle vette di 1.317 miliardi raggiunte nel novembre del 2013, ma è rimasta al di sopra dei mille miliardi negli ultimi sei anni. Il deficit commercial­e con la Cina ha da parte sua viaggiato al record di 365,7 miliardi di dollari nel 2015, in lieve rialzo dai 343 miliardi del 2014.

È il risultato di esportazio­ni pari a 116,2 miliardi mentre l’import ha raggiunto i 481,9 miliardi, alimentato da elettronic­a, abbigliame­nto e macchinari, comprese le numerose aziende americane che hanno continuato a spostare produzioni nella potenza asiatica per far leva sui minori costi. Sulla volontà decisionis­ta di Trump e dell’amministra­zione che sta mettendo a fuoco potranno non esserci dubbi. Ma i margini di errore, su uno scacchiere internazio­nale fitto di problemi irrisolti e conseguenz­e spesso i ndesiderat­e, sono ora più di ieri molto ridotti.

INTERDIPEN­DENZA La Cina è responsabi­le di metà del deficit commercial­e Usa ma detiene il 30% del debito estero americano

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