Trump, l’ira cinese su Taiwan e i reciproci interessi economici
La decisione è stata premeditata, anche se adesso volano gli insulti. La stampa cinese potrà aver pubblicamente apostrofato Donald Trump, dopo la sua ultima escalation a parole, «ignorante come un bambino», ma non possono esserci più dubbi sul fatto che la sua amministrazione repubblicana entrante sia a caccia di un “reset” delle relazioni politiche e economiche con la Cina, forse prima ancora che con la Russia, con tutte le incertezze che mettere drasticamente in discussione un tavolo da migliaia di miliardi comporta. Una correzione di rotta della quale non dubitano ormai neppure le autorità di Pechino, i cui portavoce governativi ne hanno preso atto denunciando ieri «seria preoccupazione» e alzando a loro volta i toni: qualunque strappo alla regola che dal 1979 considera Taiwan una provincia della Cina, hanno ammonito, metterebbe «fuori discussione» la cooperazione bilaterale.
Trump, nelle ultime ore, ha rilanciato la sfida cominciata con la telefonata di congratulazioni accettata dal leader di Taiwan, Tsai Ing-wen, che ne ha fatto il primo presidente o presidente eletto statunitense nella storia recente a sollevare quella cornetta. «Capisco perfettamente la politica della One-China - ha detto alla rete Tv Fox, rispondendo indirettamente a chi l’ha accusato di ingenuità - Non vedo però perché dobbiamo ritenerci obbligati a rispettarla a meno che non arriviamo a un accordo con la Cina su altri terreni, compreso il commercio». Era peraltro già venuto alla luce che quella stessa fatidica te- lefonata era stata niente affatto casuale, bensì orchestrata per mesi con la mediazione dell’anziano leader conservatore Bob Dole, lobbista di fama oltre che membro dell’establishment del partito.
L’interrogativo, così, riguarda piuttosto la portata e le ripercussioni di questo “reset”. Quanto insomma in gioco sia una questione di immagine, sicuramente parte integrante dello stile di governo di Trump, e quanto di sostanza. E nella sostanza quanto ci sia di tattica, di confronto negoziale per strappare concessioni in un quadro di mutua comprensione e di spinta a favore di regole di mercato, e quanto al contrario potenzialmente di strategico, di nuove mosse concepite - e di nuovi rischi corsi - con l’obiettivo di arginare o ridimensionare le ambizioni Pechino.
Lo straordinario rilievo delle incognite è evidenziato dai numeri delle relazioni economiche tra Washington e Pechino, oltre che dalle delicate ramificazioni politiche che interessano entrambi, dalla Corea del Nord al cambiamento climatico, dagli equilibri militari in Asia alla futura stabilità del sistema valutario, dei commerci e della crescita globale. E che il ripensamento guardi ben oltre questioni immediate lo indica un fatto all’apparenza paradossale: che oggi, semmai, le autorità cinesi so- stengono lo yuan da pressioni delle piazze finanziarie a svalutazioni eccessive, non manipolano al ribasso la divisa a danno della competitività delle imprese statunitensi come accusa Trump. Una discrepanza che sarebbe davvero semplicistico attribuire all’ignoranza.
Le più delicate pedine di questa nuova partita a scacchi sono le cifre del debito e dell’interscambio, testimoni di un rapporto i ntricato e controverso quanto ormai indispensabile e indissolubile per tutti. L’indebitamento americano nei confronti della Cina è di 1.157 miliardi di dollari, pari al 30% dei 3.900 miliardi in titoli del Tesoro e altre obbligazioni federali oggi in mano a Paesi stranieri. La cifra complessiva rappresenta una flessione rispetto alle vette di 1.317 miliardi raggiunte nel novembre del 2013, ma è rimasta al di sopra dei mille miliardi negli ultimi sei anni. Il deficit commerciale con la Cina ha da parte sua viaggiato al record di 365,7 miliardi di dollari nel 2015, in lieve rialzo dai 343 miliardi del 2014.
È il risultato di esportazioni pari a 116,2 miliardi mentre l’import ha raggiunto i 481,9 miliardi, alimentato da elettronica, abbigliamento e macchinari, comprese le numerose aziende americane che hanno continuato a spostare produzioni nella potenza asiatica per far leva sui minori costi. Sulla volontà decisionista di Trump e dell’amministrazione che sta mettendo a fuoco potranno non esserci dubbi. Ma i margini di errore, su uno scacchiere internazionale fitto di problemi irrisolti e conseguenze spesso i ndesiderate, sono ora più di ieri molto ridotti.
INTERDIPENDENZA La Cina è responsabile di metà del deficit commerciale Usa ma detiene il 30% del debito estero americano