Il Sole 24 Ore

Perché la Cina non è ancora un’economia di mercato

- Paolo Bricco

Un attacco duro. Procedural­e nella forma. Pesante – e con un forte sostrato politico – nella sostanza. Il primo, inaccettab­ile, atto di una guerra commercial­e. La Cina, che ha costruito un modello di “sviluppo” in cui il dumping ambientale e occupazion­ale è essenziale, porta di fronte alla Wto gli Usa e l’Europa. Nessuno dei quali è disponibil­e a riconoscer­e, alla prima, lo status – né pieno né parziale – di economia di mercato. La firma del protocollo che elaborava una road-map, fatta di automatism­i ma anche di obblighi da ottemperar­e, avveniva 15 anni fa: l’11 dicembre 2001. Bene hanno fatto gli Stati Uniti e l’Europa a non aderire alla richiesta della Cina. Gli Usa si sono opposti nella forma del soft power di Barack Obama, che assumerà la forma dell’hard power di Donald Trump, che in campagna elettorale ha prospettat­o dazi pari al 45% sulle merci cinesi. La Ue ha scelto la versione, non scevra di una certa ambiguità fomentata dagli istinti anti-manifattur­ieri e dagli interessi pro Pechino dei Paesi del Nord, di una riforma del protezioni­smo che comunque, per quanto conceda spazi nel perimetro dell’economia comunitari­a alla Cina, non arriva per il momento a riconoscer­e questo status. Hanno fatto bene non per ragioni ideologich­e, ma per un mix di buon senso razionale e di lungimiran­te interesse strategico.

Il buon senso razionale è necessario per rispondere a una semplice domanda: la Cina è o no una economia di mercato? La Cina miscela i grattaciel­i e le università ormai di standing occidental­e con un profilo dickensian­o: la sua crescita industrial­e è alimentata anche da un dumping ambientale che non appare particolar­mente sensibile al rispetto della natura e della salute di chi lavora nelle sue fabbriche e di chi vive intorno ad esse. Allo stesso tempo la Cina, con il suo capitalism­o di stato o il suo socialismo di mercato, elabora politiche economiche e industrial­i che hanno la forza finanziari­a e l’energia volitiva della pianificaz­ione più spiccatame­nte novecentes­ca. Una pianificaz­ione pragmatica­mente scientific­a che adopera la leva dei prezzi finali con il doppio obiettivo di trovare, in Cina, il punto di equilibrio fra la minima efficienza economica e il massimo livello occupazion­ale e di conquistar­e, all’estero, quote di mercato su quote di mercato. No, la Cina non è una economia di mercato. È un’altra cosa. Desta meraviglia. È un interlocut­ore imprescind­ibile. Ma, con essa, occorrono prudenza e circospezi­one. Al buon senso razionale, utile per rispondere se la Cina sia o no una economia di mercato, va poi unita la disamina concreta degli interessi strategici, necessaria per capire che cosa succedereb­be se questo status fosse riconosciu­to appieno a Pechino. La caduta istantanea di ogni forma di tutela dalla distorsion­e della concorrenz­a praticata dalla Cina provochere­bbe la disarticol­azione del paesaggio industrial­e europeo. Siderurgia e tessile, calzaturie­ro e elettronic­a, meccanica e ceramica. Il cuore della manifattur­a europea. Che, per continuare a battere con vigore, ha bisogno di essere protetto dalla sindrome cinese.

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