Le crisi non sono mai solo economiche
Quando si pronuncia la parola “crisi” i nostri pensieri corrono verso gli scenari economici. L’ultima è ancora in corso, nonostante gli sforzi compiuti per uscirne. Quella del 1929 è ormai un punto di riferimento storico insieme a guerre e rivoluzioni. Nel recente passato siamo stati abituati da politici ed esperti di vario genere, a intendere la crisi come qualcosa di temporaneo. Si è detto e ripetuto che le condizioni economiche del futuro sarebbero state più interessanti di quelle del passato e che ogni generazione sarà in grado di accrescere la qualità della propria vita. È sempre valida tale prospettiva?
Alla domanda stanno rispondendo innumerevoli saggi e analisi. Di certo, nel coacervo che si è formato, vale la pena riflettere su un libretto firmato da Amalia Signorelli, un’antropologa culturale allieva del grande Ernesto De Martino, uscito da Einaudi: “La vita al tempo della crisi” (pp. 114, euro 12). La sua indagine parte dall’avvento del neoliberismo e dagli effetti della globalizzazione per chiedersi cosa stia cambiando nelle società contemporanee. Quali mutamenti abbiano condizionato la vita delle persone, di che genere siano i nuovi riferimenti che incalzano e sostituiscono quelli tradizionali, cosa stia accadendo ai cosiddetti valori.
La Signorelli pone la sua lente di ingrandimento sulla precarietà esistenziale e sui nuovi stili di vita, analizza la crisi finanziaria, economica e culturale, dedica una parte all’antropologia del fenomeno che ormai ha fatto toccare con mano accelerati impoverimenti e verticali perdite di status, rivela in un capitoletto dal titolo “senza progetto” alcuni indicatori collettivi di paralisi progettuale, tra i quali non va dimenticata la crisi della natalità.
Un elemento della paralisi va cercato nell’assenteismo elettorale. Per la Signorelli non è da imputare soltanto alla «sfiducia nel personale politico», ma si tratta di «un progressivo discredito verso il sistema nel suo insieme (...) la rinuncia a ogni progetto collettivo per sfiducia nelle istituzioni». Certo, si dovrebbe parlare del nuovo qualunquismo, ma il discorso ci porterebbe lontano. Anche perché non è più comparabile con quello del dopoguerra, identificato – a torto o a ragione – con un atteggiamento fascista.
La Signorelli ha intervistato giovani lavoratori e studenti universitari e ha concluso che la società flessibile in cui ci troviamo non è soltanto «insicura», ma qualcosa in cui il singolo individuo «non è». Chi ne fa parte «di volta in volta deve essere altro, assumere il ruolo o le prestazioni che gli vengono richieste o imposte». Ha ragione Luciano Gallino che ha intitolato il suo libro sulla condizione giovanile nella società flessibile “Vite rinviate”?
Per taluni aspetti parlando di crisi si torna a riflettere sulla salute e sull’equilibrio dell’uomo. Il vocabolo, non a caso, è nato tra le questioni di medicina: negli scritti del greco Ippocrate indicava la trasformazione decisiva che si produce nel punto culminante di una malattia e ne orienta il corso. Poi diventò caro a storici e filosofi, oltre che ai politici. Ortega y Gasset nel 1933 ne diede una brillante analisi nello scritto “Lo schema delle crisi”. Infine riguardò tutte le discipline dello scibile. E ora ogni uomo.