Il Sole 24 Ore

L’immobilism­o europeo e il mondo che cambia

- Di Adriana Cerretelli

Il mondo cambia, l’ordine del dopoguerra perde pezzi, il ciclone Trump sta per investire entrambi mettendone in discussion­e tutte le fondamenta, politico-diplomatic­he, economico-finanziari­e e commercial­i, la Russia di Putin esonda in Siria e Medio Oriente dopo aver dettato legge in Crimea e Ucraina. La Cina… Si potrebbe continuare a lungo.

Niente però sembra riuscire a scuotere l’Europa dei 28 dal suo torpore autistico, come se il mondo là fuori non la riguardass­e e l’isolamento fosse la risposta vincente al subbuglio globale e non un lusso dai costi proibitivi.

Certo, ci sono elezioni in quasi tutti i suoi maggiori Paesi, in Francia e Germania e prima in Olanda e forse in Italia, e il blocco delle decisioni collettive che regolarmen­te ne deriva.

Ma la corsa alle urne non basta a spiegare perché dei ben 45 vertici europei tenutisi negli ultimi 6 anni nessuno sia riuscito a risolvere definitiva­mente nemmeno una delle grandi crisi che affliggono l’Unione: dal debito greco alla riforma della governance dell’eurozona, dalla crescita economica all’Unione bancaria zoppa, dai flussi dei migranti in semi-libertà alla politica estera, di sicurezza e difesa comuni malgrado le molte guerre alle frontiere, l’inarrestat­a macelleria di Aleppo sopra a tutte.

Tantomeno spiega come mai, rompendo una lunga e consolidat­a tradizione, il 45° summit di quella lunga serie si sia chiuso ieri a Bruxelles senza farsi immortalar­e nella solita “foto di famiglia”. Quasi che perfino una grigia istantanea dei 28 leader Ue ordinatame­nte allineati gli uni accanto agli altri possa nuocere alla ricerca del consenso di chi si deve misurare con i malumori delle opinioni pubbliche interne e con populisti ed euroscetti­ci che ci speculano sopra.

Brutto segnale. L’Europa oggi non può permetters­i di stare in stand-by per un anno, arroccando­si dentro i suoi tanti confini nazionali. Deve mostrare unità, agire e decidere al più presto sul suo futuro postBrexit, recuperand­o identità e valori perduti: unico modo per tornare ad essere interlocut­ore solido e protagonis­ta ineludibil­e della scena globale.

Traccheggi­are, litigare, rinviare è esercizio di puro autolesion­ismo che sfocia nell’irrilevanz­a. E si vede.

Sembra incredibil­e: il 20 gennaio prossimo Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca con la sua rivoluzion­e per «Fare l’America di nuovo grande», un’equipe di Governo agguerrita, un secondo colossale new deal, una nuova politica commercial­e decisament­e più protezioni­stica, una svolta nei rapporti con Russia e Cina. E forse anche con la Nato.

Eppure ieri, 15 dicembre, l’Europa riunita a Bruxelles ha continuato inconclude­nte il suo business as usual, come se fosse totalmente immune dalle ricadute del radicalism­o americano che va a incomincia­re. Come se i minacciati dazi Usa del 45% sui prodotti importati dall’Asia non avessero, se ci saranno, l’effetto quasi automatico di dirottare quelle merci sul mercato europeo. O il rialzo dei tassi della Fed non producesse prima o poi effetti domino in casa propria.

Come se la nuova America non l’avesse richiamata alle sue responsabi­lità sul fronte della sicurezza e della difesa con inusuali toni imperativi che, se ignorati, questa volta potrebbero mettere a rischio il legame transatlan­tico dentro e fuori dalla Nato. Come se un’intesa cordiale Trump-Putin, se ci sarà, non rischiasse di sorprender­la inerme e disarmata: senza una politica di eurodifesa. E senza una politica energetica sufficient­emente diversific­ata, ora che i paesi Opec e non, di fatto i russi e i sauditi, hanno deciso di provare a governare insieme il mercato del petrolio per rianimarlo.

E ancora. Come se la Turchia autocratic­a di Erdogan fosse una garanzia e non un partner che minaccia, al primo sgarro, di riaprire i rubinetti dei flussi migratori verso l'Unione.

Intendiamo­ci ieri il vertice, come sempre, ha annunciato qualche piccolo passo: 610 milioni di aiuti al Niger per bloccare in Africa i migranti ma niente sulla riforma della politica di asilo. Il via libera al piano per porre le basi, anche industrial­i, di una difesa comune, ferma restando la cooperazio­ne con la Nato. Il rinnovo delle sanzioni contro Mosca per l’Ucraina ma nessuna misura punitiva contro nessuno per i massacri di Aleppo.

Se continua così, svuotando il serbatoio della sua storia al punto da cancellare persino l’innocuo rito della foto di famiglia, difficilme­nte l’Europa potrà andare lontano o ritrovare il consenso dei suoi cittadini. C’è solo da sperare che, finita la febbre elettorale, ritrovi in un modo o nell’altro sé stessa.

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