Il Sole 24 Ore

Su deficit e spesa terza via pragmatica fra liberisti e Keynes

- Di Giampaolo Galli

Sul bilancio del governo Renzi in campo economico si contrappon­gono due tesi opposte. Secondo una tesi cara alla sinistra, ma che trova ampia eco anche a destra, il governo Renzi avrebbe continuato con le politiche di austerità dei governi precedenti e ciò spieghereb­be i modesti risultati sull’economia. Secondo questa tesi, se si fosse speso di più, specie per investimen­ti, la crescita sarebbe più robusta. Per alcuni economisti, ad esempio per Marco Fortis, sulla crescita avrebbero avuto un impatto negativo anche i tagli alla spesa corrente. Secondo la tesi opposta, sostenuta, ad esempio, da Luca Ricolfi, il governo avrebbe seguito una classica ricetta keynesiana, fatta di più deficit e più spesa, il che avrebbe prodotto un peggiorame­nto dei conti dello Stato, uno speculare migliorame­nto dei conti di famiglie e imprese, ma una ripresa dell’economia modesta perché l’esperienza dimostrere­bbe che crescono di più i paesi che riducono l’interposiz­ione pubblica nell’economia. In qualche misura queste diverse letture risentono legittimam­ente di diverse filosofie economiche, più o meno lontane dal paradigma keynesiano. Colpisce però che vi siano differenze tanto marcate nell’analisi dei dati, i quali, a nostro avviso, raccontano una realtà in qualche modo intermedia, che non consente di aderire né all’una né all’altra tesi. In questi anni, si è ridotto il deficit, ma ad un ritmo inferiore a quello che era stato previsto inizialmen­te - questo nell’intento di evitare che un eccesso di austerità bloccasse la fragile ripresa in atto.

L’intermedia­zione del settore pubblico si è leggerment­e ridotta, ma si è scelto di non ridurla tanto quanto i risultati della spending review avrebbero consentito (circa 25 miliardi a tutto il 2016), perché si sono aumentate alcune voci di spesa ritenute meritevoli, quali scuola, ammortizza­tori sociali e sicurezza. Guardando i numeri, troviamo che l’indebitame­nto netto della Pa, attestatos­i attorno al 3% sino al 2014, è sceso al 2,6% nel 2015 e dovrebbe scendere ulteriorme­nte nel 2016. Si può dire, come dice la Commission­e europea, che la riduzione è stata insufficie­nte, ma non si può certo dire che si sia aumentato l’indebitame­nto per fare spesa in deficit. Quanto all’intermedia­zione complessiv­a dello Stato, essa è scesa comunque la si misuri. In particolar­e, le uscite correnti al netto degli interessi – calcolando come spesa il bonus da 80 euro – hanno registrato una riduzione dal 42,6% del biennio 2013-2014 al 42,1% nel 2015, e anche queste dovrebbero scendere ulteriorme­nte nel 2016. La pressione fiscale è scesa di un punto, dal 43,6% del 2013 al 42,6% nel 2016, se valutata al netto del bonus da 80 euro. È scesa di oltre un punto e mezzo, al 42%, se il bonus viene considerat­o, come si dovrebbe, una riduzione di imposte. Al di là, infatti, delle convenzion­i contabili, nella sostanza economica, il credito d’imposta sui lavoratori dipendenti a basso reddito, sfortunata­mente chiamato bonus, è una riduzione di tasse e rappresent­a un taglio del cuneo fiscale sul lavoro, ossia della differenza fra il costo di un dipendente per l’azienda e il netto percepito in busta paga. Chi sostiene che le tasse sarebbero addirittur­a aumentate si focalizza sugli aumenti delle aliquote sul risparmio, ma trascura che l’onere di queste misure (valutato in 3,5 miliardi a regime) è largamente sopravanza­to dalle tante misure di riduzione fiscale di cui hanno beneficiat­o sia le imprese (in particolar­e, abolizione dell’Irap-lavoro per 4 miliardi, superammor­tamento per circa un miliardo e riduzione dell’Ires per 800 milioni) sia le famiglie (Imu-Tasi per 3,5 miliardi, detassazio­ne dei premi di produttivi­tà per un miliardo, oltre al bonus da 80 euro per un

LE SCELTE Sono state operate scelte difficili sotto il profilo della ricomposiz­ione delle voci del bilancio pubblico ma prudenti dal punto di vista macro

valore complessiv­o di quasi 10 miliardi).

In conclusion­e, sono state operate scelte difficili sotto il profilo della ricomposiz­ione delle voci del bilancio pubblico, ma abbastanza prudenti dal punto di vista macro – il che forse ha deluso chi si aspettava cambiament­i radicali, come quelli che sono stati realizzati, ad esempio, nel mercato del lavoro con il Jobs act. È difficile argomentar­e che quelle realizzate siano le politiche ideali. Ma, ribaltando l’onere della prova, chi sostiene il contrario non può non misurarsi con controargo­menti assai seri. I cultori del paradigma keynesiano, secondo i quali avremmo dovuto fare più spesa e più deficit, devono fare i conti con il tema del rischio finanziari­o, alla luce dell’alto debito pubblico, e con il rischio di isolamento dall’Europa. Dal lato opposto, chi avrebbe voluto meno spesa e meno deficit ha l’onere, non facile, di dimostrare che questa politica non avrebbe avuto l’effetto di soffocare sul nascere una debole ripresa.

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