Il sistema dei comparti deve imparare dai migliori
Il capitalismo italiano funziona sull’export. E questo lo sappiamo. La manifattura italiana ha uno dei suoi elementi essenziali nei macchinari. E anche questo lo sappiamo. Quello che, però, continua a rappresentare un vero e proprio dilemma strategico è l’erraticità che – come costante storica - caratterizza la presenza di alcuni dei nostri comparti industriali di punta nella frastagliata – e in costante via di rimodulazione – mappa dei mercati globali. Il nostro sistema industriale fa fatica a crescere in maniera sistematica e coerente. E questo ha probabilmente a che fare con la tradizione di solitudine delle singole imprese e con l’assenza di un lavoro corale in cui la mano pubblica supporti queste ultime. È vero: i tempi sono di ferro e di fuoco. Dunque è vero che ogni giorno bisogna costruire il proprio futuro. Ma è altrettanto vero che l’irregolarità dei risultati dei nostri comparti più importanti su specifici mercati strategici pone una serie di questioni non irrilevanti. Nel preciso rendiconto delle esportazioni Paese per Paese e area per area effettuata dall’Ucima, l’Unione costruttori italiani macchine automatiche per il confezionamento e l’imballaggio, i primi nove mesi dell’anno sono stati segnati dai crolli di realtà colpite da violente crisi politiche e sociali come la Turchia (-19,6%), l’Algeria (18,3%) e l’Arabia Saudita (11,5%). Prendiamo, invece, i numeri consolidati dell’anno scorso di tre fulcri della manifattura e del commercio globalizzato: Cina, Brasile e Germania. Nel 2015, la Cina è calata del 30%, il Brasile è sceso dell’8,7% e la Germania dell’11,4 per cento. Flessioni significative, che nei primi nove mesi del 2016 si trasformano in -47,2% per la Cina, -38,5% per il Brasile e in un -3,6% per la Germania. Cina, Brasile e Germania. Tre mercati imprescindibili. L’Asia. Il Sud America e il Paese leader dell’Europa. Nell’analisi dell’export, si potrebbe applicare l’antico metodo appreso da Enrico Cuccia da Donato Menichella per analizzare i bilanci delle imprese: prendere una voce alla volta, costruire la serie storica, identificare i salti e le cadute incomprensibili e da lì partire per capire che cosa non funzionava nella fisiologia di quelle società. Lo stesso si potrebbe provare a fare con i singoli mercati. Nella consapevolezza che l’erraticità di questi risultati, in luoghi tanto essenziali per lo sviluppo delle nuove economie internazionali, indica l’assenza – storica – di un Sistema Paese che, nelle sue componenti pubbliche e istituzionali, abbia saputo accompagnare le imprese nelle loro attività di esportazione. Un deficit che oggi, con una struttura produttiva basata sulla piccola e media dimensione, appare ancora più evidente. Da qui bisogna ripartire. Per i beni strumentali. E per tutta la nostra manifattura.