«Amo l’artigianalità italiana»
Dal 14 al 29 gennaio la collezione ispirata all’Africa sarà venduta nel primo pop-up italiano del brand
a Non appartiene alla categoria degli stilisti star, non è presenzialista e rilascia poche interviste: Kim Jones, 37 anni, da cinque responsabile delle collezioni uomo di Louis Vuitton, vive nel suo universo creativo, ma non trascura gli aspetti pratici e commerciali del lavoro di stilista. Consapevole che ai designer di oggi viene chiesto di essere sognatori e concreti allo stesso tempo. Collezioni e sfilate devono suscitare entusiasmo e sorpresa, ma devono anche vendere. Da qui l’idea di aprire il primo pop-up store di Vuitton in Italia, scegliendo la Milano di Brera, non quella del quadrilatero.
I negozi di Louis Vuitton sono cattedrali del lusso nelle top location del mondo. Perché un pop-up in un quartiere defilato?
Primo, perché credo che anche un brand tanto conosciuto come Louis Vuitton possa, o forse debba, sforzarsi di fare cose inaspettate. Oggi più che mai il lusso ha bisogno di sorprendere, in particolare i Millennials (i nati dopo il 1980, ndr): tutto parte dal prodotto, ma anche il modo di comunicarlo e venderlo può essere originale.
Vuitton produce molto in Italia, lei cosa apprezza di più del nostro Paese?
Il know how artigianale è semplicemente stupefacente. Per uno stilista è un’esperienza fondamentale lavorare con gli artigiani e imparare da loro. Poi c’è la creatività, il senso dello stile, il gusto innato e diffuso per il bello. Sono molto curioso di vedere la reazione dei clienti italiani al pop-up store di Milano e alla collezione che abbiamo deciso di vendere lì in esclusiva dal 14 al 29 gennaio.
Per la P-E 2017 si è ispirato, ancora una volta, all’Africa. È una “piacevole ossessione” dalla quale non si libererà mai?
Sono nato a Londra ma quando avevo solo tre mesi la mia famiglia si trasferì in Ecuador. La mia è stata un’infanzia nomade e, solo per citare l’Africa, ho vissuto in Etiopia, Kenya, Tanzania e Botswana. Tendiamo a parlare di Africa dimenticandoci che è composta da oltre 50 Paesi, ciascuno dei quali ha una propria lingua, cultura, paesaggio, tradizioni. A queste diverse suggestioni sono legati molti miei ricordi d’infanzia, ma poi tutto si mischia con tante altre idee e stimoli, che vengono spesso dall’arte moderna e contemporanea.
Per la collezione ha collaborato per la seconda volta con i Chapman Brothers, artisti londinesi apparentemente lontani dall’universo estetico di Vuitton.
Adoro le contaminazioni e, per tornare alla capacità di sorprendere, credo che questa collezione riesca a farlo. Grazie alle sue tre anime: gli elementi punk di chiara provenienza londinese, la vena creativa dei Chapman, che hanno dato vita a quattro stampe di animali attorcigliati, e l’eleganza francese. Inoltre nel pop-up di Milano ci sarà la collezione continuativa Denim, perché il jeans è una delle mie tante passioni, per la sua inesauribile versatilità. È come un canovaccio dal quale partire per creare ogni volta un mix di modernità e tradizione, di comodità e stile.
A proposito di contaminazioni, cosa pensa delle sfilate uomo-donna?
Credo sia uno dei molti e comprensibili tentativi che si stanno facendo per ripensare o rinnovare i riti del mondo della moda. Ma non penso sia una scelta adatta a una maison tanto storica e grande come Louis Vuitton.
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