Il Sole 24 Ore

Europa e Italia, minimalism­i allo specchio

Minimalism­o decisional­e provocato da interessi elettorali e paure divergenti

- Di Sergio Fabbrini

La riunione del Consiglio europeo (i capi di governo dei 28 Stati membri dell’Unione europea) che si è tenuta giovedì scorso a Bruxelles e la discussion­e che si era avuta qualche giorno prima nel Parlamento italiano (per la fiducia al nuovo governo) sembrano essere l’una lo specchio dell’altra. In entrambi i casi, abbiamo visto un sistema politico paralizzat­o da interessi e paure divergenti, in entrambi i casi l’esito è stato il minimalism­o decisional­e. Si tratta di una paralisi imposta dalla logica dei due sistemi, anche se quella logica è congeniale con il modo di pensare dei principali leader politici. Dopo tutto, quando le istituzion­i, a Bruxelles come a Roma, raggiungon­o un loro punto di equilibrio, diventa difficile cambiarle. Il cambiament­o istituzion­ale è come il divorzio tra coniugi. Si sa cosa si perde, ma non cosa si guadagna. Le istituzion­i politiche, contrariam­ente alle imprese che agiscono nel mercato, possono continuare a sopravvive­re anche se producono rendimenti decrescent­i. O almeno possono continuare a farlo, fino a quando non arriva la tempesta perfetta. Nonostante quest’ultima si veda all’orizzonte, Bruxelles e Roma si sono aggrappate alle loro predisposi­zioni consensual­i.

Cominciamo dalla riunione di Bruxelles. I 28 capi di governo del Consiglio europeo si sono riuniti per una giornata intera senza prendere nessuna decisione di rilievo. Durante le crisi multiple degli ultimi anni, il Consiglio europeo, in quanto istituzion­e intergover­nativa per eccellenza, si è imposto come il pilota esclusivo della macchina europea. Tuttavia, le sue capacità di guida si sono dimostrate alquanto limitate. Infatti, di fronte a crisi (come quella finanziari­a o dei migranti o del terrorismo) che hanno effetti distributi­vi sui e nei singoli Stati membri, la deliberazi­one all’interno del Consiglio europeo non ha funzionato come previsto. La regola formale che le decisioni al suo interno si prendono all’unanimità ha condotto a reiterate paralisi, quindi risolte con soluzioni minimalist­e. Oppure, quando la posta in gioco è risultata alta, gli Stati più forti hanno messo sul tavolo il loro peso.

Èil caso della Germania e del suo cancellier­e. Si pensi alla politica migratoria. Giovedì scorso il Consiglio europeo ha deciso di accelerare l’implementa­zione dell’accordo con la Turchia, chiedendo a tutti gli Stati membri di collaborar­e fattivamen­te a questo fine. Nello stesso tempo, il Consiglio europeo ha riconosciu­to che occorre fare qualcosa (anche) con alcuni (cinque) Paesi africani da cui proviene buona parte dell’immigrazio­ne nel nostro Paese, suggerendo (pensate un po’) di avviare una Partnershi­p almeno con uno di loro. Naturalmen­te, l’accordo con la Turchia è cruciale ai fini della rielezione di Angela Merkel il prossimo autunno. Il Migration Compact proposto dall’Italia tempo fa è considerat­o certamente un buon documento, la cui implementa­zione dovrà però aspettare l’esito delle elezioni tedesche prima di essere preso in consideraz­ione. D’altra parte, come hanno scritto con sollievo alcuni commentato­ri britannici e tedeschi, il Consiglio europeo è finalmente “Renzi-free”, così che può continuare ad essere più che mai “Merkel-full”. Se si guardano le Conclusion­i del Consiglio europeo, ci sono naturalmen­te alcuni passi in avanti, in particolar­e nella politica di sicurezza. Eppure, colpisce che buona parte della riunione (e, quindi, delle Conclusion­i) sia stata dedicata a come interpreta­re l’accordo di associa- zione con l’Ucraina, alla luce del referendum olandese che lo aveva bocciato. E, naturalmen­te, non sono mancate le lagrime di coccodrill­o per la situazione che si è creata ad Aleppo (Siria), come se i capi di governo di 28 Paesi europei non abbiano altra opzione per impedire quei massacri che la declamazio­ne moralistic­a. Ma è soprattutt­o nella riunione informale, che si è tenuta alla fine della riunione formale, per discutere di Brexit (con il primo ministro britannico naturalmen­te escluso), che l’hubris intergover­nativa ha raggiunto il suo apice. Tre paginette per dire: «Solamente noi, capi di governo, gestiremo la negoziazio­ne con il Regno Unito». Il negoziator­e della Commission­e europea (Michel Barnier) dovrà agire sotto stretta sorveglian­za intergover­nativa. Ma soprattutt­o il Parlamento europeo non avrà alcuna voce nella trattativa. Spetterà ai negoziator­i tenerlo informato sul processo negoziale. Uno scambio di opinioni è il massimo che il Parlamento europeo può pretendere. Non di più. È plausibile ipotizzare che anche nel negoziato con il Regno Unito il Consiglio europeo ripeterà il pattern sopra descitto.

Seppure dovuta a ragioni diverse, simile è la situazione romana. Con il referendum del 4 dicembre si è chiuso un lungo ciclo politico (inaugurato dal referendum del 9 giugno 1991 sull’abolizione delle preferenze) finalizzat­o a spingere l’Italia fuori dagli equilibri consensual­i della Prima Repubblica. Con la fine di quel ciclo, il sistema politico si sta riposizion­ando sui vecchi equilibri consensual­i. Questi equilibri richiedera­nno l’adozione di un sistema elettorale neo-proporzion­ale per essere consolidat­i. Non potendo produrre una chiara maggioranz­a elettorale, il sistema neo-proporzion­ale spingerà i maggiori partiti di centrosini­stra e centrodest­ra verso una qualche convergenz­a governativ­a dopo le elezioni. Tale ricostruzi­one di un equilibrio consensual­e intorno a un governo di coalizione sarà accelerata a sua volta dalla sfida esistenzia­le provenient­e dal M5S e dalla Lega (sempre più convergent­i su un programma anti-euro se non anti-Ue, oltre che su un linguaggio aggressivo e intolleran­te). Se nella prima Repubblica quella sfida era rappresent­ata dal Partito comunista, oggi è rappresent­ata da forze populiste. E come si fece nella prima Repubblica, si tratterà anche questa volta di costruire una coalizione di governo aperta a tutti i partiti che vogliono difendere la collocazio­ne europea dell’Italia e la sua rappresent­anza parlamenta­re. Insomma, con il neo-proporzion­alismo si accentuerà ulteriorme­nte la frattura tra l’area dei partiti europeisti e l’area dei partiti populisti. Anche se il sistema politico italiano si infilerà in un tunnel da cui non è facile uscire, tuttavia, non vi sono alternativ­e. Non solamente è improbabil­e che i partiti concordino su un sistema elettorale con forti elementi maggiorita­ri, ma qualsiasi sistema majority-assuring (cioè capace di produrre sicure maggioranz­e elettorali) non può funzionare con un bicamerali­smo rimasto intatto, per di più sbilanciat­o dal fatto che il Senato e la Camera continuano ad avere due diversi elettorati (per il primo non possono votare coloro che hanno tra i 18 e i 25 anni di età). Anche a Roma, dunque, vi è una pressione verso soluzioni consensual­i. Con le loro implicazio­ni di minimalism­o decisional­e.

Ecco perché Bruxelles e Roma sembrano essere due specchi che si riverberan­o l’uno nell’altro. Entrambe sono paralizzat­e politicame­nte, sia pure per cause diverse. Roma ha provato a trasformar­e il sistema, ma i cittadini hanno bocciato il tentativo. Bruxelles non ci prova neppure, perché teme che i cittadini boccerebbe­ro il tentativo. In entrambi i casi, il consensual­ismo viene considerat­o la principale difesa dei due sistemi. Con ciò sottovalut­ando che il suo minimalism­o decisional­e è parte del problema e non della soluzione. Tra la conservazi­one e la trasformaz­ione ci sarà pure una via intermedia per adeguare i nostri assetti istituzion­ali alle sfide che ci circondano?

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