Europa e Italia, minimalismi allo specchio
Minimalismo decisionale provocato da interessi elettorali e paure divergenti
La riunione del Consiglio europeo (i capi di governo dei 28 Stati membri dell’Unione europea) che si è tenuta giovedì scorso a Bruxelles e la discussione che si era avuta qualche giorno prima nel Parlamento italiano (per la fiducia al nuovo governo) sembrano essere l’una lo specchio dell’altra. In entrambi i casi, abbiamo visto un sistema politico paralizzato da interessi e paure divergenti, in entrambi i casi l’esito è stato il minimalismo decisionale. Si tratta di una paralisi imposta dalla logica dei due sistemi, anche se quella logica è congeniale con il modo di pensare dei principali leader politici. Dopo tutto, quando le istituzioni, a Bruxelles come a Roma, raggiungono un loro punto di equilibrio, diventa difficile cambiarle. Il cambiamento istituzionale è come il divorzio tra coniugi. Si sa cosa si perde, ma non cosa si guadagna. Le istituzioni politiche, contrariamente alle imprese che agiscono nel mercato, possono continuare a sopravvivere anche se producono rendimenti decrescenti. O almeno possono continuare a farlo, fino a quando non arriva la tempesta perfetta. Nonostante quest’ultima si veda all’orizzonte, Bruxelles e Roma si sono aggrappate alle loro predisposizioni consensuali.
Cominciamo dalla riunione di Bruxelles. I 28 capi di governo del Consiglio europeo si sono riuniti per una giornata intera senza prendere nessuna decisione di rilievo. Durante le crisi multiple degli ultimi anni, il Consiglio europeo, in quanto istituzione intergovernativa per eccellenza, si è imposto come il pilota esclusivo della macchina europea. Tuttavia, le sue capacità di guida si sono dimostrate alquanto limitate. Infatti, di fronte a crisi (come quella finanziaria o dei migranti o del terrorismo) che hanno effetti distributivi sui e nei singoli Stati membri, la deliberazione all’interno del Consiglio europeo non ha funzionato come previsto. La regola formale che le decisioni al suo interno si prendono all’unanimità ha condotto a reiterate paralisi, quindi risolte con soluzioni minimaliste. Oppure, quando la posta in gioco è risultata alta, gli Stati più forti hanno messo sul tavolo il loro peso.
Èil caso della Germania e del suo cancelliere. Si pensi alla politica migratoria. Giovedì scorso il Consiglio europeo ha deciso di accelerare l’implementazione dell’accordo con la Turchia, chiedendo a tutti gli Stati membri di collaborare fattivamente a questo fine. Nello stesso tempo, il Consiglio europeo ha riconosciuto che occorre fare qualcosa (anche) con alcuni (cinque) Paesi africani da cui proviene buona parte dell’immigrazione nel nostro Paese, suggerendo (pensate un po’) di avviare una Partnership almeno con uno di loro. Naturalmente, l’accordo con la Turchia è cruciale ai fini della rielezione di Angela Merkel il prossimo autunno. Il Migration Compact proposto dall’Italia tempo fa è considerato certamente un buon documento, la cui implementazione dovrà però aspettare l’esito delle elezioni tedesche prima di essere preso in considerazione. D’altra parte, come hanno scritto con sollievo alcuni commentatori britannici e tedeschi, il Consiglio europeo è finalmente “Renzi-free”, così che può continuare ad essere più che mai “Merkel-full”. Se si guardano le Conclusioni del Consiglio europeo, ci sono naturalmente alcuni passi in avanti, in particolare nella politica di sicurezza. Eppure, colpisce che buona parte della riunione (e, quindi, delle Conclusioni) sia stata dedicata a come interpretare l’accordo di associa- zione con l’Ucraina, alla luce del referendum olandese che lo aveva bocciato. E, naturalmente, non sono mancate le lagrime di coccodrillo per la situazione che si è creata ad Aleppo (Siria), come se i capi di governo di 28 Paesi europei non abbiano altra opzione per impedire quei massacri che la declamazione moralistica. Ma è soprattutto nella riunione informale, che si è tenuta alla fine della riunione formale, per discutere di Brexit (con il primo ministro britannico naturalmente escluso), che l’hubris intergovernativa ha raggiunto il suo apice. Tre paginette per dire: «Solamente noi, capi di governo, gestiremo la negoziazione con il Regno Unito». Il negoziatore della Commissione europea (Michel Barnier) dovrà agire sotto stretta sorveglianza intergovernativa. Ma soprattutto il Parlamento europeo non avrà alcuna voce nella trattativa. Spetterà ai negoziatori tenerlo informato sul processo negoziale. Uno scambio di opinioni è il massimo che il Parlamento europeo può pretendere. Non di più. È plausibile ipotizzare che anche nel negoziato con il Regno Unito il Consiglio europeo ripeterà il pattern sopra descitto.
Seppure dovuta a ragioni diverse, simile è la situazione romana. Con il referendum del 4 dicembre si è chiuso un lungo ciclo politico (inaugurato dal referendum del 9 giugno 1991 sull’abolizione delle preferenze) finalizzato a spingere l’Italia fuori dagli equilibri consensuali della Prima Repubblica. Con la fine di quel ciclo, il sistema politico si sta riposizionando sui vecchi equilibri consensuali. Questi equilibri richiederanno l’adozione di un sistema elettorale neo-proporzionale per essere consolidati. Non potendo produrre una chiara maggioranza elettorale, il sistema neo-proporzionale spingerà i maggiori partiti di centrosinistra e centrodestra verso una qualche convergenza governativa dopo le elezioni. Tale ricostruzione di un equilibrio consensuale intorno a un governo di coalizione sarà accelerata a sua volta dalla sfida esistenziale proveniente dal M5S e dalla Lega (sempre più convergenti su un programma anti-euro se non anti-Ue, oltre che su un linguaggio aggressivo e intollerante). Se nella prima Repubblica quella sfida era rappresentata dal Partito comunista, oggi è rappresentata da forze populiste. E come si fece nella prima Repubblica, si tratterà anche questa volta di costruire una coalizione di governo aperta a tutti i partiti che vogliono difendere la collocazione europea dell’Italia e la sua rappresentanza parlamentare. Insomma, con il neo-proporzionalismo si accentuerà ulteriormente la frattura tra l’area dei partiti europeisti e l’area dei partiti populisti. Anche se il sistema politico italiano si infilerà in un tunnel da cui non è facile uscire, tuttavia, non vi sono alternative. Non solamente è improbabile che i partiti concordino su un sistema elettorale con forti elementi maggioritari, ma qualsiasi sistema majority-assuring (cioè capace di produrre sicure maggioranze elettorali) non può funzionare con un bicameralismo rimasto intatto, per di più sbilanciato dal fatto che il Senato e la Camera continuano ad avere due diversi elettorati (per il primo non possono votare coloro che hanno tra i 18 e i 25 anni di età). Anche a Roma, dunque, vi è una pressione verso soluzioni consensuali. Con le loro implicazioni di minimalismo decisionale.
Ecco perché Bruxelles e Roma sembrano essere due specchi che si riverberano l’uno nell’altro. Entrambe sono paralizzate politicamente, sia pure per cause diverse. Roma ha provato a trasformare il sistema, ma i cittadini hanno bocciato il tentativo. Bruxelles non ci prova neppure, perché teme che i cittadini boccerebbero il tentativo. In entrambi i casi, il consensualismo viene considerato la principale difesa dei due sistemi. Con ciò sottovalutando che il suo minimalismo decisionale è parte del problema e non della soluzione. Tra la conservazione e la trasformazione ci sarà pure una via intermedia per adeguare i nostri assetti istituzionali alle sfide che ci circondano?