Il Sole 24 Ore

Come è difficile scegliere il «miglior difetto»

- Di Luca Ricolfi

Di legge elettorale si parlerà ininterrot­tamente da qui al momento del voto, senza aspettare il parere della Corte costituzio­nale sull’Italicum. Ed è logico che sia così, non solo perché c'è una diffusa impazienza di tornare al voto, ma perché le forze politiche sono fermamente intenziona­te a varare una nuova legge elettorale, comunque diversa dall’Italicum.

Tanto vale, dunque, parlarne subito. In questo tipo di discussion­e, forse, sarebbe utile distinguer­e fra i principi generali, che dovrebbero valere comunque, e le scelte di natura politica, che non possono che essere opinabili. Fra i principi generali, a mio parere, il più importante è quello del “velo d’ignoranza”, una nozione resa celebre da John Rawls negli anni '70 del secolo scorso, ma che risale alle dottrine contrattua­liste del XVII secolo: i partiti che stabiliran­no le nuove regole dovrebbero negoziarle come se non sapessero chi di essi potrà più avvantaggi­arsene. A tale principio, naturalmen­te, è facile obiettare ciò che ai contrattua­listi viene regolarmen­te obiettato, e cioè che non è possibile ignorare i propri interessi: i nostri partiti sanno (o credono di sapere) piuttosto bene che cosa loro conviene e che cosa no, e non hanno la minima intenzione di comportars­i come se non lo sapessero.

È vero, ma le vicende recenti autorizzan­o anche un diverso racconto: in realtà gli interessi di partito possono cambiare, anche piuttosto in fretta, e ciò che conviene oggi può rivelarsi controprod­ucente domani. La storia dell’Italicum è un esempio perfetto. Oggi lo si contesta perché “il sistema è diventato tripolare”, con Grillo, Pd e centro-destra a contenders­i il governo del Paese. Ma è una ricostruzi­one ad hoc, perché i tre poli esistevano già, ed erano perfettame­nte visibili, quando l’Italicum venne approvato, ossia nella primavera del 2015. È dalle elezioni politiche del febbraio 2013, quando il Movimento Cinque Stelle ebbe a raccoglier­e più o meno i voti del Pd, che sappiamo che ci sono tre schieramen­ti politici.

Perché allora non si pensò ciò che ora si finge di pensare, ovvero che il sistema non funziona bene con tre poli? La ragione è nota. Renzi aveva stravinto le elezioni europee del 2014, con il 40,8% dei consensi, e si era persuaso che il suo partito non avrebbe avuto difficoltà, o al primo o al secondo turno, ad aggiudicar­si il premio di maggioranz­a. Poi sono venute le elezioni amministra­tive del 2016 (con le sconfitte del Pd, e le vittorie del Movimento Cinque Stelle), ed improvvisa­mente si sono cominciati a comprender­e i limiti dell’Italicum: dato che a beneficiar­ne potrebbe essere il Movimento Cinque Stelle, l’Italicum non piace più al Pd; in compenso ora piace tantissimo al movimento Cinque Stelle, che fino a qualche settimana fa lo criticava aspramente. Da questa vicenda dovrebbe derivare una prima riflession­e: così come, ieri, è stato un atto di hybris fare una legge per far vincere un partito, sarebbe altrettant­o sbagliato, oggi, farne un’altra solo per impedire a un differente partito di vincere. Una buona legge elettorale deve poter durare almeno qualche decennio, e deve impedire possibili esiti anomali futuri, chiunque ne siano i beneficiar­i e le vittime. Ecco perché, a mio parere, è soprattutt­o sugli esiti anomali, da evitare o rendere molto improbabil­i, che sarebbe utile iniziare a discutere. Perché una legge elettorale non può impedire qualsiasi esito anomalo, ma può evitarne alcuni. Tutto sta a metterci d’accordo su quali siano gli esiti che è più importante evitare.

Un esito anomalo (A), ad esempio, è che un partito che raccoglie – poniamo – il 15% dei consensi su base nazionale, possa non eleggere alcun rappresent­ante o eleggerne un numero irrisorio. Si potrebbe pensare che questo esito sia del tutto anti-democratic­o, ma è esattament­e quel che può succedere (ed è successo) nella più antica e “autorevole” democrazia del mondo occidental­e, quella inglese, con un partito come i liberaldem­ocratici, schiacciat­o fra conservato­ri e laburisti. I paladini del sistema uninominal­e a un turno, o “uninominal­e secco”, non possono nascondere questo difetto del sistema da essi preferito. Un altro (per certi versi opposto) esito anomalo (B) è che forze molto piccole possano avere accesso al Parlamento, e condiziona­re pesantemen­te le politiche o le alleanze fra i partiti maggiori, e quindi più rappresent­ativi dei cittadini. Questo difetto è sempre stato presente in tutte le leggi elettorali adottate dall’Italia, dove soglie esplicite, soglie implicite, regole sulle liste coalizzate hanno spesso spalancato le porte a micro-partiti e partiti cespuglio. E il medesimo difetto è presente nell’Italicum, dove l’idea originaria di una soglia di sbarrament­o alta o media (4-5%) è stata abbandonat­a a favore di una soglia piuttosto bassa (3%).

Un altro esito anomalo (C) è che il meccanismo elettorale non sia in grado di individuar­e sempre in modo univoco un vincitore. Questo è un difetto del sistema proporzion­ale (in vigore dal 1948) e della legge Mattarella (in vigore dal 1993 al 2005), mentre è un pregio delle due leggi elettorali successive, il cosiddetto Porcellum di Calderoli e l’Italicum di Renzi. Un ulteriore esito anomalo (D) è che una forza politica, una coalizione o un leader che ha ottenuto meno voti di un’altra detenga la maggioranz­a dei seggi e governi. Questo è un esito possibile della legge Mattarella, ma è anche quello che talora accade nelle presidenzi­ali americane (recentemen­te è accaduto con Al Gore e Hillary Clinton, sconfitti nonostante avessero raccolto più voti dei loro avversari).

Ma forse l’esito anomalo più importante (E) è che una sola lista si aggiudichi la maggioranz­a assoluta dei seggi pur avendo ottenuto il consenso da un numero di votanti ampiamente inferiore al 50%. Questo è, a detta di molti, il difetto cruciale dell’Italicum, e forse anche la ragione ultima (insieme al “Senato pasticciat­o”) della sconfitta di Renzi al referendum. È vero che questo difetto è stato un po' esagerato, e che si è spesso sottovalut­ato il pregio ad

Ogni sistema di voto comporta l’accettazio­ne di «esiti anomali». I partiti dovrebbero dirci quali sono disposti ad accettare

esso strettamen­te connesso («la sera delle elezioni si sa chi ha vinto»). Ed è anche vero che gli esempi numerici addotti per illustrare tale difetto possono apparire puramente teorici (un partito con il 20-25% dei voti che si aggiudica il 54% dei seggi). E tuttavia, se accettiamo l’idea che una legge elettorale deve produrre risultati ragionevol­i, o perlomeno accettabil­i, anche in situazioni-limite, il difetto c’è ed è incontrove­rtibile. Tanto più che l’anomalia può essere prodotta anche da risultati fin da oggi non del tutto inverosimi­li. Con una soglia di sbarrament­o al 3% e l’attuale trend di decadenza dei maggiori partiti non troverei così sorprenden­te che alle prossime elezioni il vincitore del ballottagg­io (cui andrebbe il 54% dei seggi) ottenesse solo il 30% dei voti al primo turno, con il secondo e il terzo arrivato intorno al 27-28%, e il restante 15% dei consensi suddiviso fra 3-4 partitini non federati perché attirati dalla bassa soglia di sbarrament­o.

A questi cinque possibili esiti anomali, poi, si aggiunge, nei sistemi bicamerali, l’esito anomalo per eccellenza, ovvero il fatto che il voto o gli accordi parlamenta­ri diano luogo a due diverse maggioranz­e alla Camera e in Senato. Un’eventualit­à che è sempre stata possibile nella storia italiana, e che il più delle volte è stata evitata per puro caso, non perché la legge elettorale la rendesse impossibil­e (richiesta peraltro assurda, perché nessuna legge elettorale può impedire al corpo elettorale di agire in modo incongruen­te). È facile dimostrare che, anche avessimo una sola Camera, nessuna legge elettorale potrebbe evitare tutti e cinque gli esiti anomali che ho indicato sopra. La scelta di una legge elettorale comporta, necessaria­mente, l’accettazio­ne di qualche esito anomalo, e quindi non può che essere frutto di una scelta politica, che privilegia qualche principio a scapito di qualche altro. O, se preferite: che sceglie “il miglior difetto”, ovvero il mix di difetti che genera i minori inconvenie­nti. Come si vede, ce n’è abbastanza per non prendere risolutame­nte posizione per una legge elettorale contro tutte le altre. Ma già sarebbe molto se i partiti, quando difendono le rispettive proposte, avessero l’onestà e il coraggio di dirci quali, fra i cinque difetti A-B-C-D-E, sono disposti ad accettare e quali no.

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