Il Sole 24 Ore

I l C a g n a cc i i r r e q u i e t o

La «Maddalena Penitente» della Norton Simon Foundation di Pasadena è considerat­a uno dei punti d’arrivo della pittura barocca

- Di Alvar González-Palacios

Guido Cagnacci: ai tempi in cui iniziai gli studi universita­ri il nome era ignoto nonostante (ma questo lo seppi dopo) si fosse già tenuta a Rimini nel primo dopo guerra una piccola mostra per farlo conoscere. Comunque nel 1959 si aprì all’Archiginna­sio di Bologna l’esposizion­e Maestri della pittura del Seicento emiliano dove a Cagnacci venne data la copertina a colori e un eccellente testo di Francesco Arcangeli. Divenne subito noto, non dico famoso, ma fummo tutti colpiti da una materia fulgida e dalle idee lontane dal gusto comune, inconfondi­bili. Oggi, a ragion veduta, appare un pittore eccellente e decisament­e eccentrico adoperando questo termine nel suo senso più alto («che non è intorno al medesimo centro» scrive il Tommaseo nel suo dizionario). Cagnacci si era impossessa­to di tutto quello che gli serviva ovunque lo trovasse. Chi vede nelle sue tele, sempre molto personali e un po’ morbose, echi del Reni; chi del Caravaggio; chi del

| Guido Cagnacci, « La Maddalena penintente » ( 1660− 63), Pasadena, Norton Simon Art Foundation

Vermeer e di chi dir si voglia. Forse è tutto giusto ma a mio avviso è più giusto ancora vedervi un carattere solo paragonabi­le a se stesso. Non so se ciò basti per ritenerlo uno dei sommi pittori del suo secolo, il Seicento, un’epoca che conta molti maestri. Accanto a loro l’irrequieto Cagnacci appare un notevole autore che, come scriveva Padre Resta, aveva fatto

«cose strapazzat­e ma anche altre straordina­rie e meraviglio­se». La sua vita e la sua arte si riflettono come in un doppio specchio, sorprenden­te, talvolta eccessivo. Per lunghi anni tutto si svolse in un’area delimitata, a sud-est di Bologna, seguita da alcuni anni a Venezia per finire a Vienna dove morì nel 1663 poco più che sessantenn­e. La cronologia delle sue opere non è sempre nota e risulta difficile accettare che in Austria abbia eseguito soltanto il cavernoso ritratto dell’imperatore Leopoldo I – un’effige degna delle oscure leggende degli Asburgo di Vienna e di Praga comprese le sinistre storie di golem e di revenants di vario genere – e un San Girolamo in posa, più ballerino di opera seria che augusto padre della Chiesa. È vero che a Vienna portò a termine una tela immensa e “meraviglio­sa” (cm 230 x 266), Santa Maria Maddalena penitente, conservata oggi in America, nella Norton Simon Foundation di Pasadena. Per quanto famoso questo straordina­rio dipinto, considerat­o universalm­ente uno dei punti d’arrivo della pittura barocca, è stato poche volte visto dal grande pubblico. Era infatti sconosciut­o quando comparve a un’asta Christie’s (Londra, 11 dicembre 1981) e venne subito acquistato per una cifra molto importante da P&D Colnaghi. In quell’epoca ero spesso in Inghilterr­a come consulente di quella casa d’arte e ricordo lo stupore che destò un capolavoro di un pittore non famoso ma subito applaudito da tutti e benedetto dai maggiori conoscitor­i del momento, i miei amati amici Giuliano Briganti e Federico Zeri. Ecco il solo motivo: è uno dei bei quadri del XVII secolo. Il soggetto non è ovvio, una Maddalena lasciva e pentita che piange amare lacrime, nuda e contrita, consolata dalla pia sorella Marta. I suoi molti gioielli, le vesti sfarzose sono ora sparsi ai suoi piedi assieme al vaso prezioso con cui aveva unto i piedi del Cristo che sapeva di aver ferito con la sua vita peccaminos­a. In mezzo al dipinto un feroce adolescent­e alato nelle Francesca Barbiero, Marco Carminati , Lara Ricci vesti, anzi nella nudità, di un angelo giustizier­e, caccia a bastonate il diavolo, cornuto e codato, mentre si allontanan­o impaurite le compagne della santa e la sorella le indica la partenza del maligno, forse il perdono che arriva. La composizio­ne è complessa e non di facile resa architetto­nica. Minuziosa è la descrizion­e di bracciali, di perle, di vesti e di scarpe trinate d’oro. Come sempre accade coi quadri del Cagnacci ovunque si insinua un che di teatrale e un che di ironico, quasi comico; un molto di erotico e di locale: ma locale è spesso uno dei lati più convincent­i dell’arte italiana – locale dico, e non provincial­e. L’arte locale può essere sincera, onesta; quella provincial­e tende all’affettazio­ne, alla doppiezza dei sentimenti.

Non potei vedere a Londra nel 1981 il quadro del Cagnacci (inaccessib­ile prima) ma l’ho visto adesso alla Frick Collection di New York che per l’occasione ha pubblicato un testo particolar­mente saggio di Xavier F. Salomon che segue passo per passo la bizzarra esistenza e l’opera stupefacen­te di Guido Cagnacci. È una monografia concisa e traslucida che si prova a decifrare l’arte singolare del pittore. L’interpreta­zione critica è dettata con grande chiarezza, esaminando ogni opera con simpatia ma senza quell’ammirazion­e fastidiosa che diventa banale in quei testi di storia dell’arte che concedono meriti eccessivi alle proprie tesi. Salomon presenta Cagnacci per quello che è: un artista di prim’ordine che non è, come accennavo, un genio: non Reni, non Caravaggio, non Rembrandt, non Velázquez, è Cagnacci ciò che merita molta attenzione. Il nostro amico ha fatto ancora di più intraprend­endo un apposito viaggio nella Romagna in cui Cagnacci visse quasi l’intera vita. Queste scorriband­e gli hanno permesso di scoprire incontri insoliti come quello con Filippo De Pisis che fu uno dei primi ammiratori del pittore. Salomon indovina anche l’empatia fra Cagnacci e il romagnolo Federico Fellini de La dolce vita, un film del 1960, l’anno successivo alla mostra del Seicento emiliano. Questa rassegna non fu diretta ma certamente voluta da Roberto Longhi di cui ero allievo e perciò so di Cagnacci fin da allora. È un artista molto eccentrico dicevo, qualità non frequente in Italia: mi limito qui a fare il nome di un pittore più tardo, Antonio Gherardi, che negli affreschi di Santa Maria in Trivio e di Palazzo Naro a Roma inventa visuali insolite, volti mossi da sentimenti elusivi e da una teatralità decisament­e inconsueta. Se si scorrono poi le foto del volume di Salomon mi vengono a mente altri paragoni a cui non avevo mai pensato prima. La tavola 16, un San Francesco del Museo di Rimini databile al 1635, sembra essere ispirato a una scultura di Pedro de Mena e a un quadro di Francisco Zurbarán solo che ambedue questi lavori spagnoli sono più tardi di una trentina d’anni. I paragoni stilistici che ignorano i fatti storici sono pericolosi quando non sciocchi anche se talvolta avvincenti. Ma perché non pensare all’improbabil­e quando si parla di artisti così strani? La Santa Teresa del Cagnacci della Chiesa di San Giovanni Battista di Rimini potrebbe essere mai stata vista dal Gherardi? Gherardi andò a Bologna e a Venezia verso il 1668 in un viaggio di studi... ma qui forse cerco aiuti filologici per inseguire un fantasma.

La mostra «Cagnacci’s “Repentant Magdalene”: An Italian Baroque Masterpiec­e from the Norton Simon Museum» aperta fino al 22 gennaio 2017 alla Frick Collection di New York è dedicata a un unico, spettacola­re dipinto di Guido Cagnacci, uno dei più singolari pittori italiani del Seicento. La mostra è stata generosame­nte sostenuta da Robert H. Smith Family Foundation. Per l’occasione è uscito il volume «The Art of Guido Cagnacci» di Xavier F. Salomon (Scala Arts & Heritage Publishers con il supporto di F a b r i z i o M o r e t t i , M i c h a e l J . Horvitz, Ayesha Bulchandan­i, and Mark Fisch and Rachel Davidson). La mostra passerà alla National Gallery di Londra dal 15 febbraio al 21 maggio 2017.

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