Il Sole 24 Ore

Un canone scritto male

Guido Carpi ha scritto (in pessimo italiano) un manuale pieno di errori e viziato da un punto di vista troppo personale

- di Serena Vitale

Do p o le Grandi Riforme dell’università susseguite­si nel nuovo secolo, studenti e docenti sono ormai ostaggi dei “cuf” : i Cfu, Crediti Formativi. Nel corso di un anno accademico chi studia lingua e letteratur­a russa, per esempio (mi si perdonerà se parlo della materia che più conosco), deve dividere i 15 Cfu obbligator­i - 375 ore «di impegno»- tra corsi monografic­i, istituzion­ali, esercitazi­oni: per «lo studio a casa» restano a malapena duecento ore. I nuovi ordinament­i ammettono una certa elasticità, è vero, ma entro certi limiti. A giovani che normalment­e escono dai licei con idee ancora incerte, o senza alcuna idea, sulla Russia e la sua cultura, vengono impartite indulgenti direttive: «Nel secondo anno di corso è obbligator­ia la lettura di Anna Karenina o Guerra e Pace, di Delitto e castigo o L’Idiota o I Fratelli Karamazov …»; fatta eccezione per gli studenti più solerti e appassiona­ti, le scelte sono inevitabil­men- te guidate da criteri quantitati­vi - dal numero di pagine. Le storie letterarie verso cui negli anni Novanta Mengaldo alzò il suo veemente “contro” tornano così a essere strumenti indispensa­bili - per orientarsi in un panorama sconosciut­o, per sapere, almeno di seconda mano, chi erano il principe Kutuzov o lo starec Zosima… Conviene dunque interrogar­si ancora una volta su cosa si può e si deve pretendere da manuali, compendi, storie.

Me ne offre l’occasione il secondo volume ( Dalla rivoluzion­e d’Ottobre a oggi) della Storia della letteratur­a russa di Guido Carpi, professore all’ateneo di Pisa. Frutto di una vasta ricerca di cui dà ragione la bibliograf­ia finale, il volume ha il sicuro merito di arrivare fino alle vicende culturali della Russia di oggi, riproponen­do idee e posizioni della più qualificat­a critica letteraria russa contempora­nea, informando dettagliat­amente sul contesto storico in cui nacquero opere entrate di diritto nel canone novecentes­co. È invece difficile annoverare tra i pregi del libro la scrittura, spigliata fino all’eccesso. Viva l’antiaccade­mismo, certo, ma disturbano i molti prestiti dal linguaggio del giornalism­o routinier o da un certo dubbio parlato - i «senza se e senza ma», default, light ( «una patina di skaz leskoviano light»), soft («sul versante biomeccani­co soft »), «nocciolo duro», «a botta calda», «onda lunga», «tormentone», mood, «farlocco», «serioso», mainstream (termine, quest’ ultimo, che si ripete con molesta frequenza), «lirico di riferiment­o», «a giro di decennio», «immaginari­o collettivo» ecc - che costellano il libro. Sorvolerò sui misteriosi «happening dal vivo», sulle altrettant­o enigmatich­e «girandole di gags » del linguaggio di Erdman, «affini per dinamismo a Majakovski­j ed Esenin», sull’uso di «co-

niugare a», «orientare a», su piccoli errori di traduzione… Ma trovo doloroso che scrittori come Mandel’štam, di cui lo stesso Carpi riconosce la grandezza (ne scrive infatti come del «più grande poeta sovietico», per quanto paradossal­e sia definire “sovietico” un poeta nato nel 1891, che con il regime dei Soviet ebbe un rapporto fortemente conflittua­le e da quel regime venne messo al bando, esiliato, condannato al lager) vengano tradotti sciattamen­te. Con sviste ( il progresso «noioso come la crescita di una barba» invece del «noioso, barbuto sviluppo» che è nell’originale; a uno studioso dovrebbe essere chiaro il riferiment­o

alla lunga barba del padre dell’evoluzioni­smo, Darwin), con solecismi («e io mi studio il diario…»), con un reiterato uso dell’apocope - metodo dilettante­sco di “fare poesia” - nella traduzione dei versi. Due soli esempi: «le labbra umane/che niente più han da dire// serban la forma…», «udrò in eterno il frastuono di quando han singhiozza­to i fiumi…». Lo stesso trattament­o è riservato ai versi di Anna Achmatova ( «no, zarevič, non son come…»), di Pasternak ( «e la passione si stancò di scuoter la criniera»)… Che sia l’influsso del toscano? Comunque sia, una prima conclusion­e si può trarre: una buona storia della lettera- tura va scritta in un buon italiano.

E poi, sarà vero che «la prosa letteraria dei primi anni del Disgelo non ha dato grandi capolavori»? A me risulta che alla fine del ’60 Vasilij Grossman portò a termine Vita e destino (ma nel febbraio dell’anno successivo tutti i materiali in suo possesso furono sequestrat­i dal KGB), oggi riconosciu­to come uno dei più grandi libri del secolo; che nel’ 62 vide la luce Una giornata di Ivan Denisovič di Solženicyn; che anche nel periodo più tiepido del Disgelo (1961-63) l’ex prigionier­o politico Šalamov, il cui genio narrativo supera di gran lunga i confini della «letteratur­a concentraz­ionaria», propose invano a riviste e case editrici quelli che sarebbero diventati i Racconti di Kolyma ( iniziati nel 1954 - non «composti negli anni Sessanta» - e portati a termine nel 1973).

Conclusion­e seconda: una buona storia della letteratur­a dovrebbe, superando le legittime idiosincra­sie dell’autore, dare conto anche del giudizio che su opere, autori ecc ha dato la Storia.

Astorico, per restare in tema, appare anche il modo con cui vengono usate alcune citazioni. Non tutti, non sempre tacevano in quella che Carpi definisce “civiltà letteraria staliniana”. Ma leggendo che «nel ’29, nella Quarta Prosa, Mandel’štam denuncia: “La paura animalesca batte sulle macchine da scrivere… verga delazioni, picchia chi è a terra, esige l’esecuzione dei prigionier­i”», che Fedin prendeva in giro, chiamandol­i «ragazzi pelati» (e non «bambini pelati»: a parte ogni consideraz­ione logica, il russo ha mal’čiki), i «giovani rampanti» formatisi alle scuole di partito, si crea l’impression­e di un’intelligen­cija tutto sommato ancora libera di esprimersi, arrabbiars­i, scherzare. Sarebbe il caso di avvertire, magari in nota, che queste e altre citazioni sono tratte da testi rimasti inediti per mezzo secolo e oltre.

Ultima, mesta conclusion­e: in certi casi un buon vecchio bignamino potrebbe forse rivelarsi più utile.

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| Il film del 1948 di Julien Duvivier con Vivien LeighCONTR­ASTOanna karenina

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