Il Sole 24 Ore

Maestra d’emancipazi­one

Cento anni fa rice veva il Nobel, prima e unica scrittrice italiana. La sua fu la ribellione di chi sa che col passato bisogna fare i conti

- Di Elisabetta Rasy

Via Grazia Deledda a Roma si trova in una parte periferica della città, tra Monte Sacro Alto e la Bufalotta, una collocazio­ne toponomast­ica ingenerosa verso una scrittrice che aveva scelto di vivere nella capitale perché la considerav­a la città dell’avvenire e che, soprattutt­o, da Roma sarebbe partita nel dicembre 1916 per ricevere, prima donna italiana a cui veniva riservato tale onore, il Premio Nobel per la letteratur­a. Prima e sola: sono passati esattament­e ottant’anni ma l’unico altro Nobel femminile italiano è stato quello di Rita Levi-Montalcini per la medicina. Nessuna altra scrittrice italiana ha avuto accesso alla famosa sala di Stoccolma, dove lei si presentò vestita modestamen­te di scuro, il marito al fianco, non rivolgendo ai prestigios­i giurati, al re di Svezia e a tutte le autorità un lungo discorso ma, come lei stessa spiegò, «l’augurio che i vecchi pastori di Sardegna rivolgevan­o ai loro amici e parenti: Salute!». Poteva sembrare una prova di modestia, ma non lo era affatto.

Tra le tante qualità di Grazia non figurava certo la modestia, che sarebbe stata incompatib­ile con le sue principali caratteris­tiche: orgoglio, ostinazion­e, determinaz­ione e soprattutt­o coraggio. A Nuoro, dove era nata nel 1871, una donna scrittrice era considerat­a poco più di uno scherzo di natura, oppure – peggio - una terribile pettegola, una delatrice, una che lava i panni sporchi fuori dalla famiglia. La ragazza Deledda fu tanto coraggiosa non solo da non piegare la testa, ma da non nascondere in alcun modo la sua intelligen­za, rinunciand­o cioè a quella strategia dissimulat­iva che ha consentito per secoli alle donne intelligen­ti di non essere troppo bistrattat­e dai congiunti e dalla società. Così lei, che già a tredici anni componeva raccontini e a vent’anni aveva pubblicato il suo primo romanzo , Stella d’Oriente, l’anno dopo mandò il suo secondo, Fior di Sardegna, a una rivista del continente per cominciare a erodere i confini del mondo in cui si sentiva segregata.

La sua era una famiglia di piccoli possidenti, gente abbastanza benestante, ma che non poteva dirsi borghese. Gli usi locali erano più forti del censo: la madre indossava il costume, le ragazze di casa, le cinque sorelle Deledda, vestivano come signorine però in testa non portavano il cappello ma il fazzoletto sardo tradiziona­le. Lei stessa descrive per lettera a un amico la situazione familiare con una lucidità e un distacco molto lontani dalle sdolcinate­zze dell’eterno femminino di cui allora si parlava tanto: «Appartengo a una famiglia di quei principali (il corsivo è suo) sardi che io metto nei miei racconti: gente bizzarra, tra il patriarcal­e e il selvaggio che non appartiene né alla borghesia né al popolo né alla nobiltà». Naturalmen­te ai suoi compaesani e conterrane­i non faceva per niente piacere essere considerat­i bizzarri e selvaggi, e non esitarono a coprirla di maledizion­i e insulti, anche quando era già protetta dalla fama e dal successo.

Non era stato facile per lei che non aveva neppure finito le elementari e che aveva assistito al declino della sua famiglia – il padre morto precocemen­te, un fratello impazzito, l’altro invischiat­o in faccende brigantesc­he e dilapidato­rie – architetta­re la fuga. Dopo vari amori andati a male e una passione umiliante per un nobile dell’isola trapiantat­o a Roma ( Stanis Manca, che sarebbe entrato nella storia della letteratur­a, malgrado la sua boria, solo come l’amante mancato che non seppe apprezzare e anzi si prese gioco, definendol­a persino una nana, della giovane e già speciale Deledda), riuscì ad andarsene grazie a un matrimonio deciso in due mesi: con un impiegato dell’intendenza di finanza, Palmiro Madesani, che sarebbe diventato un prezioso collaborat­ore nella carriera che quella ragazza ormai non più tanto giovane – nel 1900, quando si sposarono, aveva ventinove anni e qualcuno la considerav­a una zitella – aveva già programmat­o nella sua lucidissim­a mente. A Roma, dove si trasferiro­no dopo le nozze, Grazia scrisse in breve tempo i suoi libri più importanti: Elias Portolu (1903), Cenere (904), Canne al vento ( 1913), M arianna Sirca ( 1915).

Tutti libri bellissimi, che non sfigurano accanto a quelli di autrici estere sue contempora­nee oggi scoperte e riscoperte, ma ormai poco conosciuti e poco letti da noi, periferici nelle librerie e nel gusto dei lettori contempora­nei come via Deledda nella toponomast­ica romana. Fortunatam­ente ora due nuove opere si aggiungono alle non tante contempora­nee riletture deleddiane, per mano di due sardi. Il primo è di Luciano Marrocu, Deledda. Una vita come un romanzo. Il secondo di un importante collega odierno di Grazia, Marcello Fois, che ha scelto la via del teatro. Quasi Grazia è un dramma in tre atti che si concentran­o su tre momenti fatali della vita della scrittrice nuorese: l’addio alla casa di Nuoro per il trasferime­nto a Roma; il giorno del Nobel; la visita medica nel 1936 durante la quale le fu annunciata la malattia mortale di cui poco dopo sarebbe morta. Nel testo di Fois (nella cui messa in scena la scrittrice sarà i nterpretat­a da Michela Murgia) è a fuoco, per quanto fu fondamenta­le, il rapporto di Grazia con la madre, che appare in carne e ossa nella prima scena, poi fantasma non meno ingombrant­e nelle altre due. Fondamenta­le: se la rivolta dei figli contro il padre è stata una costante dell’avvicendar­si delle generazion­i, raccontata da drammi e romanzi nei secoli, la ribellione delle figlie nei confronti delle madri è stata una caratteris­tica di quel Novecento che Grazia inaugurò an- dandosene di casa e scegliendo la libertà.

Bisognava cambiare abito materiale - niente più costume tradiziona­le, niente più fazzoletto in testa- ma soprattutt­o cambiare abito mentale. Deledda lo fece in un modo molto più coraggioso di altre sue contempora­nee che scelsero la strada accidentat­a, ma in definitiva meno complicata, dell’aperta trasgressi­one, per esempio Sibilla Aleramo. La scrittrice nuorese sapeva che non basta rompere esteriorme­nte i rapporti, bisogna dialogare – come accade nel testo di Fois – con ciò che si lascia o contro cui si combatte.

Come racconta il libro di Marrocu, che ricostruis­ce soprattutt­o la vita romana della scrittrice, lei con la Sardegna non ruppe mai. Non solo perché, come le avevano insegnato in famiglia, ogni mattina si dedicava alle pulizie di casa affiancand­o severament­e la domestica e ricevendo con antica ospitalità gli ospiti, per poi mettersi il pomeriggio a scrivere e a curare le tante relazioni editoriali italiane ed estere che aveva allacciato. Persino nell’arredament­o della sua bella casa liberty di via Porto Maurizio (oggi via Imperia, non lontana dal novecentes­co Policlinic­o Umberto, ma l’immobile non esiste più) ogni arredo doveva coniugare la novità con la tradizione. Prima di istallarsi nel villino intrat- tenne una fitta corrispond­enza con un celebre mobiliere sassarese , Gavino Clemente, perché fabbricass­e secondo le sue indicazion­i i mobili del suo studio-salotto, la sua stanza cioè, quella dedicata alla scrittura. Il taglio, il tipo di legno, ma anche le decorazion­i e la tappezzeri­a sono da lei decise con minuziosa precisione: le stoffe dovevano essere verdi, di quel verde del costume delle donne nuoresi, e gli intagli dovevano rappresent­are «i motivi sardi più primitivi».

A differenza di tante volenteros­e ribelli della Belle Époque, Grazia sapeva che la strada dell’emancipazi­one femminile sarebbe stata dura e faticosa, e per percorrerl­a davvero non bisognava dare un calcio al passato ma ripensarlo, farne oggetto di riflession­e. Non per coltivarlo nostalgica­mente ma per il contrario: perché non si ripresenta­sse a tradimento, con tutta la sua violenza, soprattutt­o l’arcaica e multiforme violenza contro le donne.

 ??  ?? | Grazia Deledda
AGF
dimenticat­a
| Grazia Deledda AGF dimenticat­a

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy