Maestra d’emancipazione
Cento anni fa rice veva il Nobel, prima e unica scrittrice italiana. La sua fu la ribellione di chi sa che col passato bisogna fare i conti
Via Grazia Deledda a Roma si trova in una parte periferica della città, tra Monte Sacro Alto e la Bufalotta, una collocazione toponomastica ingenerosa verso una scrittrice che aveva scelto di vivere nella capitale perché la considerava la città dell’avvenire e che, soprattutto, da Roma sarebbe partita nel dicembre 1916 per ricevere, prima donna italiana a cui veniva riservato tale onore, il Premio Nobel per la letteratura. Prima e sola: sono passati esattamente ottant’anni ma l’unico altro Nobel femminile italiano è stato quello di Rita Levi-Montalcini per la medicina. Nessuna altra scrittrice italiana ha avuto accesso alla famosa sala di Stoccolma, dove lei si presentò vestita modestamente di scuro, il marito al fianco, non rivolgendo ai prestigiosi giurati, al re di Svezia e a tutte le autorità un lungo discorso ma, come lei stessa spiegò, «l’augurio che i vecchi pastori di Sardegna rivolgevano ai loro amici e parenti: Salute!». Poteva sembrare una prova di modestia, ma non lo era affatto.
Tra le tante qualità di Grazia non figurava certo la modestia, che sarebbe stata incompatibile con le sue principali caratteristiche: orgoglio, ostinazione, determinazione e soprattutto coraggio. A Nuoro, dove era nata nel 1871, una donna scrittrice era considerata poco più di uno scherzo di natura, oppure – peggio - una terribile pettegola, una delatrice, una che lava i panni sporchi fuori dalla famiglia. La ragazza Deledda fu tanto coraggiosa non solo da non piegare la testa, ma da non nascondere in alcun modo la sua intelligenza, rinunciando cioè a quella strategia dissimulativa che ha consentito per secoli alle donne intelligenti di non essere troppo bistrattate dai congiunti e dalla società. Così lei, che già a tredici anni componeva raccontini e a vent’anni aveva pubblicato il suo primo romanzo , Stella d’Oriente, l’anno dopo mandò il suo secondo, Fior di Sardegna, a una rivista del continente per cominciare a erodere i confini del mondo in cui si sentiva segregata.
La sua era una famiglia di piccoli possidenti, gente abbastanza benestante, ma che non poteva dirsi borghese. Gli usi locali erano più forti del censo: la madre indossava il costume, le ragazze di casa, le cinque sorelle Deledda, vestivano come signorine però in testa non portavano il cappello ma il fazzoletto sardo tradizionale. Lei stessa descrive per lettera a un amico la situazione familiare con una lucidità e un distacco molto lontani dalle sdolcinatezze dell’eterno femminino di cui allora si parlava tanto: «Appartengo a una famiglia di quei principali (il corsivo è suo) sardi che io metto nei miei racconti: gente bizzarra, tra il patriarcale e il selvaggio che non appartiene né alla borghesia né al popolo né alla nobiltà». Naturalmente ai suoi compaesani e conterranei non faceva per niente piacere essere considerati bizzarri e selvaggi, e non esitarono a coprirla di maledizioni e insulti, anche quando era già protetta dalla fama e dal successo.
Non era stato facile per lei che non aveva neppure finito le elementari e che aveva assistito al declino della sua famiglia – il padre morto precocemente, un fratello impazzito, l’altro invischiato in faccende brigantesche e dilapidatorie – architettare la fuga. Dopo vari amori andati a male e una passione umiliante per un nobile dell’isola trapiantato a Roma ( Stanis Manca, che sarebbe entrato nella storia della letteratura, malgrado la sua boria, solo come l’amante mancato che non seppe apprezzare e anzi si prese gioco, definendola persino una nana, della giovane e già speciale Deledda), riuscì ad andarsene grazie a un matrimonio deciso in due mesi: con un impiegato dell’intendenza di finanza, Palmiro Madesani, che sarebbe diventato un prezioso collaboratore nella carriera che quella ragazza ormai non più tanto giovane – nel 1900, quando si sposarono, aveva ventinove anni e qualcuno la considerava una zitella – aveva già programmato nella sua lucidissima mente. A Roma, dove si trasferirono dopo le nozze, Grazia scrisse in breve tempo i suoi libri più importanti: Elias Portolu (1903), Cenere (904), Canne al vento ( 1913), M arianna Sirca ( 1915).
Tutti libri bellissimi, che non sfigurano accanto a quelli di autrici estere sue contemporanee oggi scoperte e riscoperte, ma ormai poco conosciuti e poco letti da noi, periferici nelle librerie e nel gusto dei lettori contemporanei come via Deledda nella toponomastica romana. Fortunatamente ora due nuove opere si aggiungono alle non tante contemporanee riletture deleddiane, per mano di due sardi. Il primo è di Luciano Marrocu, Deledda. Una vita come un romanzo. Il secondo di un importante collega odierno di Grazia, Marcello Fois, che ha scelto la via del teatro. Quasi Grazia è un dramma in tre atti che si concentrano su tre momenti fatali della vita della scrittrice nuorese: l’addio alla casa di Nuoro per il trasferimento a Roma; il giorno del Nobel; la visita medica nel 1936 durante la quale le fu annunciata la malattia mortale di cui poco dopo sarebbe morta. Nel testo di Fois (nella cui messa in scena la scrittrice sarà i nterpretata da Michela Murgia) è a fuoco, per quanto fu fondamentale, il rapporto di Grazia con la madre, che appare in carne e ossa nella prima scena, poi fantasma non meno ingombrante nelle altre due. Fondamentale: se la rivolta dei figli contro il padre è stata una costante dell’avvicendarsi delle generazioni, raccontata da drammi e romanzi nei secoli, la ribellione delle figlie nei confronti delle madri è stata una caratteristica di quel Novecento che Grazia inaugurò an- dandosene di casa e scegliendo la libertà.
Bisognava cambiare abito materiale - niente più costume tradizionale, niente più fazzoletto in testa- ma soprattutto cambiare abito mentale. Deledda lo fece in un modo molto più coraggioso di altre sue contemporanee che scelsero la strada accidentata, ma in definitiva meno complicata, dell’aperta trasgressione, per esempio Sibilla Aleramo. La scrittrice nuorese sapeva che non basta rompere esteriormente i rapporti, bisogna dialogare – come accade nel testo di Fois – con ciò che si lascia o contro cui si combatte.
Come racconta il libro di Marrocu, che ricostruisce soprattutto la vita romana della scrittrice, lei con la Sardegna non ruppe mai. Non solo perché, come le avevano insegnato in famiglia, ogni mattina si dedicava alle pulizie di casa affiancando severamente la domestica e ricevendo con antica ospitalità gli ospiti, per poi mettersi il pomeriggio a scrivere e a curare le tante relazioni editoriali italiane ed estere che aveva allacciato. Persino nell’arredamento della sua bella casa liberty di via Porto Maurizio (oggi via Imperia, non lontana dal novecentesco Policlinico Umberto, ma l’immobile non esiste più) ogni arredo doveva coniugare la novità con la tradizione. Prima di istallarsi nel villino intrat- tenne una fitta corrispondenza con un celebre mobiliere sassarese , Gavino Clemente, perché fabbricasse secondo le sue indicazioni i mobili del suo studio-salotto, la sua stanza cioè, quella dedicata alla scrittura. Il taglio, il tipo di legno, ma anche le decorazioni e la tappezzeria sono da lei decise con minuziosa precisione: le stoffe dovevano essere verdi, di quel verde del costume delle donne nuoresi, e gli intagli dovevano rappresentare «i motivi sardi più primitivi».
A differenza di tante volenterose ribelli della Belle Époque, Grazia sapeva che la strada dell’emancipazione femminile sarebbe stata dura e faticosa, e per percorrerla davvero non bisognava dare un calcio al passato ma ripensarlo, farne oggetto di riflessione. Non per coltivarlo nostalgicamente ma per il contrario: perché non si ripresentasse a tradimento, con tutta la sua violenza, soprattutto l’arcaica e multiforme violenza contro le donne.