Fusione di cellule contro la leucemia
manageriale, che è sempre o in inglese o tradotto alla meglio - un unmet need (una esigenza non soddisfatta) della medicina contemporanea. È stato proprio questo lo stimolo ad inventare un approccio immunologico per la terapia della leucemia linfatica acuta dell’adulto (vedi Il Sole 24 Ore del 7 aprile 2013), basato sull’impiego dei cosiddetti linfociti T del paziente, che mediante ingegneria genetica acquistano anche proprieta dei cosiddetti linfociti B e - come missili - cercano e trovano il loro bersaglio in una molecola chiamata CD19 che riveste le cellule della leucemia linfoide acuta. Ebbene, a 3 anni di distanza degli oltre cento pazienti che hanno ricevuto questo trattamento piu di 80% sono andati in remissione e molti sono poi guariti in seguito a un trapianto di midollo allogenico (forse ridondante): un risultato alquanto spettacolare.
Questo approccio non sembrava promettente per la leucemia mieloide acuta (LMA), soprattutto perche le sue cellule non sono rivestite da CD19, ed una molecole equivalente per la LMA non si è trovata. In compenso, Il 7 dicembre su Science Translational Medicine un nuovo approccio, pure immunologico, viene pubblicato dal team di Jacalyn Rosenblatt e David Avigan (Boston). Essi hanno ottenuto da singoli pazienti con LMA sia le cellule leucemiche sia cellule normali (monociti) capaci - come si dice in gergo immunologico - di «presentare antigeni»poi, in vitro, hanno fuso le une con le altre (la tecnologia della fusione cellulare è nota da decenni: uno dei pionieri è stato, a Londra, l’acuto genetista italiano Guido Pontecorvo, fratello del famoso regista e del famoso fisico). Le cellule fuse (impropriamente chiamate «vaccino»), inattivate mediante irradiazione, sono poi state iniettate al paziente di origine: lo scopo è che il partner cellulare non-leucemico della fusione presenti tutti gli antigeni del partner leucemico al sistema immunitario del Paziente, che sperabilmente risponderà rigettando le cellule leucemiche ancora vive. Il non semplice piano ha funzionato: dei 17 pazienti trattati 13 sono vivi ed in remissione (cioè non hanno traccia di leucemia): un risultato tanto più significativo se consideriamo che in tutti i 17 (età media 63 anni), varie opzioni di trattamento precedentemente adottate erano una dopo l’altra fallite.
Oltre a rallegrarci con i pazienti e con gli autori, credo ci siano tre punti da notare. Primo, la pubblicazione iniziale di questi autori su questo tipo di fusione cellulare risale al 2005: è normale che ci vogliano da 10 a 20 anni perché un’idea scientifica diventi una realtà clinica, ed è importante che gli enti preposti alla gestione della ricerca e del governo clinico ne tengano conto. Secondo, in entrambe queste terapie immunologiche il nocciolo non è un farmaco, ma cellule prelevate dal singolo paziente: questo potrà o no piacere all’industria farmaceutica, ma esse od altre si adopreranno per provvedere i molti implementi tecnologici necessari. Al tempo stesso, in un’epoca in cui personalized medicine è uno slogan sciorinato non sempre a proposito, una medicina più personalizzata di questa è difficile immaginare. Terzo, la domanda che forse più spesso un oncologo si sente fare è: «ma quando lo debelliamo il cancro?».
Tutti vorremmo poter rispondere in modo profetico; ma la verità è che vi sono centinaia di tipi di tumori, e dobbiamo capire le caratteristiche di ciascuno. Occorrono migliaia di tessere per fare un mosaico; ed io penso che dobbiamo molto a chi si dedica in modo monotematico allo studio ed alla cura di un qualunque tipo di tumore.