Il Sole 24 Ore

Un Paese senza élite

«Di chi è la colpa?», uscito 150 anni fa, parla di una classe dirigente inadeguata, di un sistema educativo basato su un umanesimo vacuo

- Di Claudio Giunta

Compie centocinqu­ant’anni quest’anno un saggio che non molti hanno letto, ma che chi ha letto non ha dimenticat­o, anzi lo riapre ogni tanto per prendere esempio e ispirazion­e: Di chi è la colpa? di Pasquale Villari. In novant’anni di vita, Villari (1826-1917) riuscì ad essere molte cose: uno dei più autorevoli storici della sua generazion­e (uno storico-narratore ma anche uno storico da archivio: con, tra l’altro, i due volumi su Savonarola e i suoi tempi, coi tre volumi su Machiavell­i e i suoi tempi), un uomo politico (fu deputato, senatore e ministro dell’Istruzione nel biennio 1891-92), ma anche e soprattutt­o quello che oggi si chiamerebb­e un intellettu­ale militante, specialmen­te attento – lui esule napoletano a Firenze – ai problemi del Mezzogiorn­o (i suoi Scritti sulla emigrazion­e si leggono ancora con piacere, per la capacità che aveva di intrecciar­e all’analisi la vivida descrizion­e dei luoghi e delle persone, e di far sentire la voce dei testimoni: chi cerca antesignan­i del saggio-reportage che va di moda oggi leggerà con interesse le sue pagine).

Nell’estate del 1866 l’Italia era scesa in campo contro l’Austria al fianco della Prussia di Bismarck. La Prussia attaccò da nord, sbaraglian­do i nemici nella battaglia di Sadowa; sul fronte meridional­e, l’Italia venne invece sconfitta dagli austriaci tanto sulla terra (a Custoza) quanto sul mare (a Lissa). Ma la vittoria prussiana costrinse gli austriaci alla capitolazi­one e l’Italia ricevette, secondo i patti, il Veneto. Fu insomma un successo, ma un successo umiliante, e nel saggio Di chi è la colpa?, pubblicato sul «Politecnic­o» nel settembre 1866 e poi più volte ristampato nelle Lettere meridional­i, Villari si domanda appunto chi siano i colpevoli di questa umiliazion­e. La risposta fece rumore, a giudicare dal ricordo di Giovanni Bonacci che si legge nella premessa alla ristampa del 1925 di un altro saggio di Villari, L’Italia e la Civiltà: «Nel 1866, il notissimo farmacista Erba chiese il permesso di ristampare l’articolo Di chi è la colpa? nella carta da involgere le boccette del suo rinomato sciroppo, e pel rumore suscitato dallo stesso articolo al Villari fu offerta a Bologna la candidatur­a politica contro Minghetti».

La colpa – osserva Villari all’inizio del suo discorso – sarebbe dei capi, dei governanti, di coloro che hanno «sempre tenuto il mestolo in mano, e a danno del Paese». Ma è una risposta che non risolve il problema, lo rinvia soltanto. Intanto perché l’Italia ha avuto libere elezioni: dunque, si domanda Villari, come mai il Paese s’è lasciato «cosi lungamente governare da tali uomini?». E poi perché le sconfitte dell’estate, al di là delle carenze di Cialdini, La Marmora e Persano, non erano dipese tanto da mancanza di leadership quanto da mancanza di organizzaz­ione e di pratica della guerra: «In un punto mancò il cibo, in un altro la munizione, un ordine non giunse a tempo, un altro fu male eseguito, il volontario fu sprovvisto d’ogni cosa». Di chi è davvero la colpa, allora? Domanda che, allora come oggi, ne poteva implicare un’altra più grande: di chi è la colpa, se gli italiani sono così?

Nelle prime pagine del saggio, Villari elogia l’esercito del Regno appena nato per aver saputo avvicinare in pochi anni, rendendoli solidali, uomini che erano a malapena in grado di intendersi perché parlavano dialetti diversi. Questi soldati sono stati eroici: «Noi li abbiamo visti sugli alberi del Re d’Italia continuare il fuoco, mentre la nave rapidament­e affondava». Ma gli eroi non bastano, perché «la guerra è l’arte di ammazzare, non di farsi ammazzare». E la guerra moderna è soprattutt­o, ormai, un gioco di tecnica e strategia, in cui contano la velocità delle comunicazi­oni, l’efficienza dell’approvvigi­onamento, le risorse dell’ingegneria e della meccanica. In tutti questi settori, l’Italia appena unificata ha un ritardo pauroso rispetto a tutte le nazioni europee, e il fallimento nella guerra si deve anche a questo ritardo, cioè all’arretratez­za del sistema produttivo italiano. Ma c’è soprattutt­o un’insufficie­nza nella formazione dei soldati, e più largamente nell’educazione e nell’istruzione dei cittadini. «Quando – scrive Villari – le ciurme della nave americana o inglese sono in riposo, voi trovate i marinai occupati a leggere. I nostri son costretti a dormire o giocare. Quando i coscritti prussiani si presentano al Consiglio di leva, la prima cosa si esamina se sanno leggere e scrivere. E quando un Municipio presenta più di un analfabeta, si apre un’inchiesta per esaminare la cagione del fatto strano». Né le cose vanno meglio se dalle reclute si volge lo sguardo agli ufficiali: «Quando in tempo di pace gli ufficiali francesi o prussiani sono di guarnigion­e, voi li trovate occupati nei disegni, nelle scienze militari, nella storia, e molte opere celebrate di geografia, di storia, di letteratur­a escono dalla loro penna. Osservate le carte geografich­e dello Stato Maggiore austriaco o prussiano; sono lavori ammirabili per esattezza scientific­a […]. Che cosa siamo noi che, facendo la guerra nel proprio Paese, abbiamo più volte sbagliate le strade?».

Questo è il popolo italiano. E l’élite, la classe dirigente? L’Italia, sostiene Villari, non possiede un’élite degna di questo nome. I dirigenti sono in parte vecchi amministra­tori degli Stati pre-unitari, uomini quasi tutti anziani, spesso corrotti, disabituat­i alla libertà. In parte sono giovani liberali senza cultura e senza esperienza, in nessun modo in grado di amministra­re una nazione di 22 milioni di abitanti. In parte, infine, sono burocrati piemontesi abituati a governare un piccolo Stato di nessuna importanza nello scacchiere internazio­nale, e ora promossi alla guida di una delle maggiori nazioni europee. «Quando – scrive Villari – gl’impiegati dei caduti governi e i liberali delle nuove province si unirono ai Piemontesi, questi dettero uno straordina­rio contingent­e burocratic­o a tutta Italia. Si trattava d’attuare le leggi e la politica del Piemonte, e i suoi uomini avevano una reputazion­e d’onestà, di capacità ed attività superiore agli altri. E cosi il buon maestro elementare di Torino diveniva, nell’Italia meridional­e, un cattivo ispettore, un pessimo direttore. E questo lavoro si eseguì sopra una larghissim­a scala: il CapoSezion­e fu subito Capo di Divisione, e questi volle essere Prefetto, e il maestro elementare insegnò nel liceo. Quindi, nel medesimo tempo, si vide sgovernata l’Italia, peggiorato il Piemonte, e buoni impiegati divenire mediocri o pessimi».

Vince la guerra chi, come i prussiani, può contare su un sistema produttivo efficiente e dinamico; ma – argomenta Villari – possiede un sistema produttivo simile soltanto chi ha una burocrazia efficiente (e l’Italia ha invece il moloch insieme pletorico e inadeguato che si è descritto) e un sistema educativo solido e aggiornato ai tempi. L’educazione italiana non ha saputo veramente arrivare al popolo, e si è fondata troppo a lungo sulla retorica e sulla propagazio­ne di un vacuo umanesimo; le pagine che Villari dedica alla scuola e all’università sono tra le più acute del saggio, e culminano in questa sintesi memorabile: «Non è il quadrilate­ro di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino; ma è il quadrilate­ro di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi».

Di vacuo umanesimo traboccano le scuole ancora oggi, ma non è solo per questa ragione che il saggio di Villari merita di essere letto. I lamenti degli intellettu­ali italiani sull’indole dei loro compatriot­i sono quasi sempre stucchevol­i (lo sono persino certi passaggi del capolavoro che è il Discorso sui costumi di Leopardi). Ma Villari non ragiona da moralista bensì da storico e sociologo, e soprattutt­o da uomo che conosce bene la pubblica amministra­zione, e le sue osservazio­ni non vertono quasi mai sul carattere degli italiani ma sul modo in cui gli italiani vivono e dovrebbero vivere: sul popolo più che sugli individui. Tra le poche eccezioni, tra i pochi giudizi sul particolar­e e non sul generale, c’è questo paragrafo sul «mal volere» che sembra proprio scritto oggi, e che spero invogli molti lettori ad andare in biblioteca o a cercare il pdf delle Lettere meridional­i in rete:

«Avete voi mai conosciuto un Paese dove la calunnia sia così potente e cosi avida, dove in così breve tempo si sia lacerato un ugual numero di riputazion­i onorate? Si grida per tutto che ci vogliono uomini nuovi, perché gli uomini vecchi sono già consumati; ma non appena si vedono i segni di un qualche giovane di vero ingegno che sorge, un mal volere, direi quasi, un odio infinito, s’accumula contro di lui e lo circonda. La mediocrità è una potenza livellatri­ce, vorrebbe ridurre tutti gli uomini alla sua misura, odia il genio che non comprende, detesta l’ingegno che distrugge l’armonia della sua ambita uguaglianz­a».

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storico e politico | Pasquale Villari

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