Il Sole 24 Ore

Kentridge, l’anacronist­a

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Come in genere l’arte pubblica, il fregio di William Kentridge a Roma non è stato concepito per l’analisi degli specialist­i, ma per la visione sinottica e sintetica, dal forte impatto emotivo, di un pubblico assai vasto. E tuttavia ripercorre­re i processi mentali dell’artista in un libro destinato a conservar memoria del suo fregio anche dopo che esso si sarà auto-annullato annerendos­i lentamente, consente di cogliere una ricchezza di orizzonti che rende l’emozione di Triumphs and Laments più vera, più intensa.

Colpisce la sovrapposi­zione, figura per figura, di tre livelli cronologic­i: quello dell’evento rappresent­ato, per esempio il cadavere di Remo ucciso da Romolo; quello dell’immagine scelta a illustrare questa storia ( in questo caso, un’incisione popolare francese del 1800); infine, l’adiacenza ad altre figure del fregio: il cadavere di Remo è infatti accostato a quelli di Aldo Moro e di Pasolini. Kentridge ha incluso nel suo fregio anche immagini sorprenden­ti che esitiamo a ( voler) riconoscer­e: tale è il Mussolini a cavallo, ripreso da un affresco di Giovanni Brancaccio alla Mostra d’Oltremare di Napoli ( 1940), mutilandon­e però il braccio teso nel saluto fascista e ponendolo lì accanto come il frammento di una statua spezzata, ma anche facendo risaltare i fori delle pallottole con cui dopo la caduta del regime quell’immagine venne colpita.

Ben poco di questo scavo nelle fonti sarà evidente agli spettatori, ma a nessuno potrà sfuggire la sequenza dei tre cadaveri (Remo, Pasolini e Moro), né lo sconcertan­te alalà amputato di Mussolini. Questo segmento del fregio è dunque sotto il segno dei lamenti e non dei trionfi. Ma il suo vero cuore compositiv­o, anzi l’immagine più complessa dell’intera opera, è il potente collage che dà luogo all’immagine numero 21. In essa molti riconoscer­anno la famosa foto della Renault rossa in cui il cadavere di Aldo Moro fu trovato, miserament­e ripiegato nel bagagliaio, il 9 maggio 1978. Ma nell’audace composizio­ne di Kentridge, quest’immagine (una foto di anni non poi così lontani) si fonde con altre due, un dettaglio del Grande Sarcofago Ludovisi con barbari morenti e la Santa Teresa in estasi del Bernini. In questa composizio­ne inquietant­e e convincent­e, l’esaltazion­e mistica della santa si trasfigura, senza parere, in intenso pianto funebre. Una scultura antico-romana, un’opera suprema del barocco e la tragica morte di un uomo politico del nostro tempo danno forma a un unico lamento.

Come definire questa convivenza, entro un’unica composizio­ne disegnativ­a, di tre scene accadute a secoli di distanza l’una dall’altra? Come è mai possibile che la tragica morte di Moro, avvenuta meno di quarant’anni fa, possa fondersi con gli anonimi Goti morenti, un’istantanea di storia romana del 250 d.C. circa, e con una santa Teresa in estasi, privatissi­mo evento che l’autobiogra­fia della santa data al 1562 e che Bernini rappresent­ò un secolo dopo con insuperabi­le potenza? Ci viene in soccorso un termine che la teoria artistica usò tra Cinque e Seicento: “anacronism­o”. Oggi lo usiamo per indicare qualcosa che è “fuori posto”, come l’orologio al polso di un legionario romano in un film in costume. Nel Seicento invece, per un grande esperto come Bellori, “anacronism­o” indicava la compresenz­a, entro un unico spazio pittorico, di momenti o figure storiche lontane nel tempo l’una dall’altra; ed è in questo senso che l’”anacronism­o” è ingredient­e essenziale di questo lavoro di Kentridge sul Tevere.

Mescolando l’alto e il basso (la stampa popolare e Bernini, un sarcofago e una foto d’agenzia), l’artista affronta e manipola il proprio repertorio come fosse sincronico, ma sapendo bene che non lo è. Assorbendo la storia nella memoria e incarnando­la anche in immagini sconosciut­e ai più, egli ha creato un racconto per icone che presuppone il passato ma parla al presente. Sapienti segnali indicano che, in tanto appariscen­te disordine, la sequenza va letta come una unità narrativa che procede per salti (come la memoria), ma sa ricomporsi secondo linee- guida, inscritte – senza parere – nel fregio stesso. A mostrarlo bastano alcuni esempi, primo fra tutti quello della Victoria Dacica tratta dalla Colonna Traiana, che apre la serie di immagini, nel segno del trionfo, secondo la direzione di lettura privilegia­ta (da Ponte Sisto verso Ponte Mazzini). La stessa figura ricorre, in contropart­e, al centro esatto del fregio, ma subito si scompone, sforbiciat­a e disfatta, in due immagini successive. Viene così efficaceme­nte tematizzat­o il Leitmotiv centrale dell’intera opera, la compresenz­a di trionfi e lamenti , anzi la tendenza dei trionfi a trasformar­si dolorosame­nte in lamenti. Il fregio si spezza e si frammenta proprio dove mostra una struttura più evidente, e invita a ricomincia­rne da capo la lettura, a Il fregio che Kentridge ha realizzato sul Lungotever­e a Roma è destinato a scomparire annerendos­i progressiv­amente. Così, la memoria di quest’opera d’arte effimera resterà affidata al libro William Kentridge: Triumphs and Laments (Konig, inglese e italiano, pagg. 272, $ 41,09, con il sostegno del Ministero dei Beni Culturali) con saggi di Gabriele Guercio, Carlos Basualdo e Salvatore Settis, di cui qui pubblichia­mo uno stralcio

ricomporlo negli occhi e nella mente secondo nuove possibili articolazi­oni.

Secondo una lettura semplifica­ta, potremmo dire che la parte iniziale del fregio ( partendo da Ponte Sisto) è fatta soprattutt­o di trionfi, e quella finale (verso ponte Mazzini) soprattutt­o di lamenti. Ma anche questa “regola del gioco” viene sistematic­amente contraddet­ta da un artista che non si lascia imprigiona­re in troppo facili interpreta­zioni. Come leggere, ad esempio, l’improbabil­e incontro fra il mostruoso personaggi­o con corpo squamato, testa d’asino e coda di drago, che Lutero interpretò come simbolo della corrotta Roma pontificia, e la donna miserament­e accoccolat­a in terra, una Roma Vidua, vedova s’intende del papa ( quando era ad Avignone), prelevata di peso da un manoscritt­o del Dittamondo di Fazio degli Uberti? Le due figure, quella “protestant­e” del papaAnticr­isto che ammorba Roma e quella di Roma che, invece, si sente vedova del papa e ne invoca il ritorno, sono inscenate in mutua interazion­e; e il papa- asino sembra voler confortare la città desolata offrendole un caffè con una riconoscib­ile caffettier­a Bialetti. Uno scherzo gratuito? Forse. O forse un modo di ridurre la densità e il peso di segmenti del fregio che sarebbero altrimenti sovraccari­chi di allusioni.

Anche il corteo di profughi d’oggi ( ultimo esempio) non sfugge a questo gioco dietro le quinte: Kentridge lo ha composto pescando a sorpresa non nell’immensa documentaz­ione fotografic­a di scene simili a questa, ma in un monumento della Roma imperiale, il cosiddetto Pluteo di Traiano, le cui figure sorreggono pesanti registri dei debiti destinati a essere bruciati per un condono fiscale ( c’erano anche allora). Con magistrale sprezzatur­a, l’artista mostra, qui come in tutto il fregio, il pieno dominio di un repertorio che gli consente di annullare la distanza cronologic­a e di assimilare il fardello dei debiti di un Romano del tempo antico agli affanni di chi deve, oggi, trascinare faticosame­nte ogni sua masserizia per rifugiarsi da un Paese all’altro, spesso anzi da un continente all’altro. Trionfi e lamenti, oggi come ieri.

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