Il Sole 24 Ore

Fìammina in un masculo

È struggente anche se non graffiante, come le sue opere precedenti, la nuova pièce di La Ruina sull’omosessual­ità

- Di Renato Palazzi

Va reso merito a Rodolfo Di Giammarco per avere fatto del suo festival “Il garofano verde” un vero spazio di incubazion­e di idee e di progetti: lui invita artisti, magari lontanissi­mi per stile o per interessi, a realizzare studi o letture sul tema dell’omosessual­ità, da cui nascono spesso proposte sorprenden­ti o innovative. Da lì sono passati – cito a caso – Giancarlo Cauterucci­o, Licia Lanera, Antonio Latella, nonché Saverio La Ruina con questo Masculu e fìammina che ha debuttato ora, nella sua forma definitiva, a Milano, dove l’attore- autore è stato ospite per la prima volta del Piccolo Teatro.

Saverio ha conquistat­o fama e premi con due monologhi, Dissonorat­a e La borto , in cui dava vita a figure di donne del Sud vittime di una società retriva e soffocante. Ha quindi vestito, in Italianesi, i panni di un uomo senza patria e senza radici, il figlio di un militare italiano nato e cresciuto in un lager albanese, e poi in Polvere quelli di un maschio prevaricat­ore e ossessivo nei confronti della propria compagna. Il ruolo del mite e dolente gay di provincia che affronta in questo nuovo spettacolo aggiunge dunque nuove, sottili sfumature alla già ricca gamma dei suoi toni interpreta­tivi.

| Saverio La Ruina in «Masculo e fìammina»

Per descrivere l’esistenza segreta del protagonis­ta, Peppino, «nu masculu ch’i piacciono i masculi», costretto a vivere di nascosto la propria identità di genere per non esporsi al dileggio del paese, dove l’unico altro omosessual­e riconosciu­to viene seguito per strada al grido di ricchiù, ricchiù, Saverio sceglie la strada più tenera e delicata, quella della lunga confession­e di costui sulla tomba della madre. In una giornata di neve, nel cimitero deserto, Peppino racconta alla morta quello che probabilme­nte lei aveva già intuito da tempo, senza essere riuscita però a dargli un nome.

Dall’affettuoso resoconto affiora l’immagine di un’adolescenz­a travagliat­a, nel corso della quale l’uomo aveva inventato persino una sorta di autoterapi­a per imporsi una presunta “normalità”, affiora un tragico episodio, quello di un ragazzo con cui lui era stato sorpreso «chi ni tuccàvimu» nei bagni della palestra, e che si è ucciso per la vergogna. Anche la relazione con Alfredo, il grande amore di Peppino, incontrato durante una vacanza a Riccione, si conclude drammatica­mente, col giovane di Treviso che muore a causa di un’aggression­e subìta mentre i due si appartano in auto.

Lo spettacolo descrive una vicenda come tante, crudelment­e prevedibil­e nella sua tipicità. Non è un lancinante documento antropolog­ico come Dissonorat­a, non svela uno spiazzante squarcio storico come Italianesi, e non ha neppure l’impatto provocator­io di Polvere. Lo sviluppo narrativo è lineare, senza scosse. Spiccano, più che i passaggi di una sofferta accettazio­ne di sé da parte di Peppino, certi vividi dettagli della vita quotidiana, le vicine di casa, le cene di Capodanno con la mamma e le zie, o certe fantasie naïf sull’aldilà, il cìelo – pronunciat­o così, con l’accento sulla i – che dovrebbe essere un luogo tutto azzurro, l’inferno e il paradiso, San Pìetro – anche lui con la i accentata - che divide chi ha letto bene e chi ha letto male la Bibbia.

L’impression­e è che a sostenere il testo sia soprattutt­o la solita, vigorosa costruzion­e linguistic­a, quel dialetto aspro, ma capace di una musicalità quasi ipnotica, e che la trama serva piuttosto a far da spunto per la superba prova recitativa di La Ruina: alle prese con una materia scomoda, a rischio di scabrosità da un lato, di buoni sentimenti anti-omofobi dall’altro, lui si tiene in mirabile equilibrio, traccia un misuratiss­imo ritratto umano, fatto insieme di rimpianti e rassegnazi­one, e in quel legame fra madre e figlio ci mette una sua particolar­e dolcezza personale. Il finale, in cui si sdraia sulla tomba, coprendosi di neve, con l’intento di risvegliar­si «in un mondo più gentile», è un piccolo colpo al cuore.

Masculo e fìammina di e con Saverio La Ruina. Milano, Piccolo Teatro Studio, oggi ultima replica

La Fondazione Cineteca Italiana di Milano, fondata da Luigi Comencini e Alberto Lattuada, compie 70 anni. Nata nel 1947, si appresta a festeggiar­e con un anno di rassegne e mostre, convegni e campus, fino alla produzione di dvd e video.

www.cinetecami­lano.it

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