Il Sole 24 Ore

Consumi di pasta in crescita nel mondo

Dall’Iran alla Turchia i produttori possono conquistar­e mercati oggi residuali

- Micaela Cappellini

Dall’Iran alla Turchia, i Paesi dove, a sorpresa, il consumo di pasta sta crescendo nel mondo.

pIran, Turchia, Egitto e Brasile. Segnatevi questi nomi: secondo Euromonito­r, sono i mercati dove il consumo di pasta crescerà di più nei prossimi cinque anni. L’Europa è praticamen­te satura, scrive Jack Skelly, analista della società di consulenza inglese, e dal 2011 a oggi il consumo mondiale di pasta è cresciuto solo dell’1% all’anno. Al contrario, i tassi di crescita di questi quattro Paesi sono del 4-5% all’anno e secondo Euromonito­r rimarranno invariati anche per il prossimo quinquenni­o.

Entro la fine del 2016 Iran, Turchia ed Egitto insieme, la cui popolazion­e complessiv­a conta più di 250 milioni di persone, avranno consumato 1,6 milioni di tonnellate di pasta. Più o meno, quanto l’Italia - che è primo produttore e primo esportator­e al mondo - ne vende ogni anno all’estero (1,8 milioni di tonnellate nel 2015).

Ma come si stanno muovendo, gli esportator­i italiani, in questi mercati giudicati tra i più promettent­i? Stando alle statistich­e dell’Aidepi, l’associazio­ne delle industrie della pasta italiana, per il made in Italy oggi questi sono mercati residuali. Dei 2,3 miliardi di euro di export incassati l’anno scorso dai nostri pastifici, l’Europa rappresent­a oltre il 72%: Francia, Germania e Regno Unito da soli pesano addirittur­a per il 44% dei volumi e per il 45% degli introiti. Verso le Americhe si dirigono circa 200mila tonnellate di pasta made i n Italy, ma solo 50mila di queste non prendono la via degli Stati Uniti, quarto mercato di sbocco del nostro export di settore e per giunta in calo dell’1,3 per cento. Verso l’Asia, invece, viaggiano ogni anno 214mila tonnellate di pasta italiana, di cui 66mila dirette in Giappone.

«La verità è che questi sono tra i quattro Paesi più complicati che ci siano - spiega Giuseppe Di Martino, dell’omonimo pastificio, che controlla anche il Pastificio Amato e che esporta prevalente­mente nei mercati maturi -. La Turchia, per esempio, più che un mercato di destinazio­ne, per noi è il principale concorrent­e sul palcosceni­co internazio­nale: ha impianti moderni di produzione e ha investito molto nel settore, tanto che ci sottrae molto business soprat- tutto in Cina, in Africa e nei Paesi arabi». Costa meno, la pasta made in Istanbul, «anche perché usufruisce di finanziame­nti sotto forma di restituzio­ne all’export», ricorda Stefano Berruto, dell’omonimo pastificio piemontese.

L’Egitto è un altro mercato difficile per la pasta italiana: «Ha recentemen­te alzato una serie di barriere protezioni­stiche a difesa della nascente produzione locale - ricorda sempre Berruto -. E come mercato di sbocco sta subendo una battuta d’arresto per colpa della crisi socio-politica».

L’Iran, forse, dei quattro Paesi è il più promettent­e: «Bisognerà vedere con che tempi il suo mercato si aprirà - sostiene Di Marti- no -, ma è indubbio che abbia un ottimo bacino di potenziali consumator­i, per giunta già abituati alla pasta, poiché il Paese stesso ha un’industria locale piuttosto sviluppata».

Quanto al Brasile, fra crisi economica e alte barriere tariffarie all’ingresso le esportazio­ni italiane del 2015 sono calate di oltre il 18% in volume.

Non è, dunque, su questo gruppo di Paesi che nel breve la pasta made in Italy sembra decisa a giocarsi le proprie carte migliori per la futura crescita dell’export. «In Asia puntiamo su India, Vietnam e Thailandia - spiega Berruto -, inoltre vediamo arrivare segnali di ripresa dal mercato russo». Un mercato che tra il 2013 e il 2015 (fonte Sace) ha visto tracollare le importazio­ni di pasta italiana di oltre il 50 per cento.

Di Martino, al contrario, preferisce far rotta sui Paesi dell’Europa orientale e naturalmen­te sulla Cina, dove l’Italia è ancora troppo poco rappresent­ata: secondo l’Aidepi, nel 2015 i nostri produttori hanno venduto a Pechino meno di 19mila tonnellate di pasta e, se anche il consumo cinese di spaghetti italiani - ricorda Sace - negli ultimi otto anni è cresciuto del 495%, stiamo pur sempre parlando di un introito per l’Italia di 18 milioni di euro contro, per esempio, i 260 milioni provenient­i dal mercato americano, che ha solo un quarto della popolazion­e della Cina. «La fondamenta­le differenza per noi esportator­i di pasta - conclude Di Martino - è che, mentre la Cina si sta aprendo, Egitto e Turchia si stanno chiudendo, mentre l’Iran almeno nel breve periodo resta una realtà piuttosto chiusa. Quindi il fatto di essere Paesi più vicini della Cina, più accessibil­i logisticam­ente e con un sistema della distribuzi­one più semplice da approcciar­e non riesce ancora a fare la differenza».

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