Il Sole 24 Ore

Un incentivo a migliorare la qualità complessiv­a

- Gianni Trovati

Più che a distribuir­e medaglie ai migliori e cattiva fama ai peggiori, i numeri sui risultati dell’attività di ricerca svolta nei diversi atenei italiani servono a migliorare la qualità complessiv­a del sistema. Il tema può sembrare meno affascinan­te sul piano della comunicazi­one, che naturalmen­te si sbizzarris­ce su classifich­e e sorpassi, ma è più utile per la platea a cui l’università si rivolge: gli studenti, prima di tutto, che hanno diritto a trovare anche lontano dai centri di eccellenza strutture in grado di offrire qualcosa di più di un semplice liceo in formato maxi (tali sono le università e i dipartimen­ti che di fatto dimentican­o la ricerca); ma anche il Paese nel suo complesso, che ha bisogno di un’accademia più attiva per trovare l’innovazion­e indispensa­bile anche a uscire dalle secche di una ripresa che rimane stentata.

Da questo punto di vista i dati diffusi ieri dall’Agenzia nazionale di valutazion­e del sistema universita­rio offrono qualche spunto incoraggia­nte. La prima «Vqr» presentata tre anni fa, esercizio ciclopico di valutazion­e dei «prodotti di ricerca» sfornati dalle università italiane, ha messo sotto esame i risultati realizzati dai professori italiani fra 2004 e 2010, e quindi ha fotografat­o l’esistente nell’epoca prevalutaz­ione. Proprio con la legge Gelmini del 2010, seguita e rilanciata sotto questo aspetto dai governi successivi, la valutazion­e dei risultati ottenuti nella didattica e nella ricerca è entrata a pieno titolo nel mondo universita­rio, assumendo anche un peso crescente nella distribuzi­one dei fondi pubblici agli atenei statali. I nuovi numeri pubblicati ieri, che riguardano il 2011-2014, mostrano quindi le dinamiche realizzate nei primi anni del nuovo sistema: e in questa chiave un primo restringim­ento della forbice che separa la media degli atenei del Nord da quella che si incontra nel Mezzogiorn­o è senza dubbio un fatto positivo.

È solo un primo segnale, e come tale va considerat­o, perché le distanze medie restano enormi e fuori dall’ambito specifico della ricerca conoscono le loro manifestaz­ioni peggiori, in un’alleanza perversa fra crisi economica e buchi del diritto allo studio proprio nelle regioni più in difficoltà. In questo contesto i giovani meridional­i finiscono per dividersi in due gruppi: chi ha una famiglia economicam­ente solida infittisce l’emigrazion­e accademica, e chi non ce l’ha si accontenta oppure rinuncia del tutto all’università.

La valutazion­e non può risolvere tutti i problemi, ma aiuta a creare una grammatica comune, una sorta di «livello essenziale delle prestazion­i» che, come previsto nella sanità, traduca in pratica il diritto a studiare in strutture competitiv­e. Il dibattito sui criteri della valutazion­e e sulle modalità con cui viene esercitata si deve continuare, per ottenere risultati sempre più solidi, trasparent­i e tempestivi; ma la strada, in cui l’università ha qualcosa da insegnare anche agli altri settori della Pa, non può essere rimessa in discussion­e.

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