Un incentivo a migliorare la qualità complessiva
Più che a distribuire medaglie ai migliori e cattiva fama ai peggiori, i numeri sui risultati dell’attività di ricerca svolta nei diversi atenei italiani servono a migliorare la qualità complessiva del sistema. Il tema può sembrare meno affascinante sul piano della comunicazione, che naturalmente si sbizzarrisce su classifiche e sorpassi, ma è più utile per la platea a cui l’università si rivolge: gli studenti, prima di tutto, che hanno diritto a trovare anche lontano dai centri di eccellenza strutture in grado di offrire qualcosa di più di un semplice liceo in formato maxi (tali sono le università e i dipartimenti che di fatto dimenticano la ricerca); ma anche il Paese nel suo complesso, che ha bisogno di un’accademia più attiva per trovare l’innovazione indispensabile anche a uscire dalle secche di una ripresa che rimane stentata.
Da questo punto di vista i dati diffusi ieri dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario offrono qualche spunto incoraggiante. La prima «Vqr» presentata tre anni fa, esercizio ciclopico di valutazione dei «prodotti di ricerca» sfornati dalle università italiane, ha messo sotto esame i risultati realizzati dai professori italiani fra 2004 e 2010, e quindi ha fotografato l’esistente nell’epoca prevalutazione. Proprio con la legge Gelmini del 2010, seguita e rilanciata sotto questo aspetto dai governi successivi, la valutazione dei risultati ottenuti nella didattica e nella ricerca è entrata a pieno titolo nel mondo universitario, assumendo anche un peso crescente nella distribuzione dei fondi pubblici agli atenei statali. I nuovi numeri pubblicati ieri, che riguardano il 2011-2014, mostrano quindi le dinamiche realizzate nei primi anni del nuovo sistema: e in questa chiave un primo restringimento della forbice che separa la media degli atenei del Nord da quella che si incontra nel Mezzogiorno è senza dubbio un fatto positivo.
È solo un primo segnale, e come tale va considerato, perché le distanze medie restano enormi e fuori dall’ambito specifico della ricerca conoscono le loro manifestazioni peggiori, in un’alleanza perversa fra crisi economica e buchi del diritto allo studio proprio nelle regioni più in difficoltà. In questo contesto i giovani meridionali finiscono per dividersi in due gruppi: chi ha una famiglia economicamente solida infittisce l’emigrazione accademica, e chi non ce l’ha si accontenta oppure rinuncia del tutto all’università.
La valutazione non può risolvere tutti i problemi, ma aiuta a creare una grammatica comune, una sorta di «livello essenziale delle prestazioni» che, come previsto nella sanità, traduca in pratica il diritto a studiare in strutture competitive. Il dibattito sui criteri della valutazione e sulle modalità con cui viene esercitata si deve continuare, per ottenere risultati sempre più solidi, trasparenti e tempestivi; ma la strada, in cui l’università ha qualcosa da insegnare anche agli altri settori della Pa, non può essere rimessa in discussione.