Il Sole 24 Ore

Le incognite sulla strada della crescita

Un Pil che fa +1% è segno di una transizion­e incompiuta, di una difficoltà endemica

- Di Guido Gentili

Ce la farà la nave Italia? Magari a spingerla sarà Donald Trump, che sfugge all’esercizio della catalogazi­one preventiva, e il suo “amico” Vladimir Putin: Stati Uniti ruggenti contro la sleale concorrenz­a cinese, meno tasse, più infrastrut­ture, meno regole finanziari­e, dollaro forte, giù il muro delle sanzioni a Mosca. Magari no, perché la rivoluzion­e del nuovo Presidente Usa s’incaglia su una sua stessa promessa, dovesse essere messa davvero in atto, il che per fortuna non è affatto certo.

Alzare barriere e tariffe doganali che a loro volta, aprendo una stagione di ripicche incrociate, colpirebbe­ro al cuore il commercio internazio­nale. Cioè il motore dello sviluppo globale che quando ha girato per il meglio ha sempre dato grandi soddisfazi­oni all’Italia, Paese manifattur­iero per eccellenza e patria di un popolo di imprendito­ri-esportator­i straordina­ri.

Se ne va il 2016, tra l’emergenza banche e risparmio, il Governo Gentiloni appena insediato e con l’orizzonte di reggere finché avrà la fiducia in Parlamento, il “No” vincente al referendum costituzio­nale che ha costretto Matteo Renzi a lasciare Palazzo Chigi, un sentiero strettissi­mo nei rapporti con l’Europa (regole del debito non rispettate), la necessità assoluta di alzare una crescita ancora troppo bassa e fragile. E arriva il 2017, dove l’unica certezza sulla quale si può contare è la politica monetaria accomodant­e della Bce a guida Mario Draghi. Il resto è una distesa di punti interrogat­ivi. Fatta la nuova legge elettorale (quale? Prevarrà la nostalgia del vecchio proporzion­ale? Con un colpo di saggezza si ripartirà dal “Mattarellu­m”, che dimostrò sul campo di funzionare?) si voterà a giugno? Si voterà in autunno? Non si voterà nel 2017 e si andrà alla scadenza naturale della legislatur­a nel febbraio 2018? E di che segno sarà la legge di Bilancio 2018? Prima an- cora di iniziare a etichettar­la (espansiva, rigorista, post o pre-elettorale) converrà ricordare – quale che sia il governo in quel momento in carica – che dovranno essere messi in pista 19 miliardi solo per disinnesca­re gli aumenti dell’Iva e delle accise rinviati al 2018.

In calendario, ci sarebbe in effetti una data che potrebbe far pensare a una festa vera senza troppi problemi. Il 25 marzo ricorrono i 60 anni della firma dei Trattati di Roma, simbolo storico del processo di integrazio­ne europea. Ma a marzo ci sarà anche l’esame sulla politica economica italiana, che si annuncia assai complesso su deficit e debito. E poi, sullo sfondo, la salute politica dell’Europa è malferma, acciaccata dai suoi ritardi, dalla distanza che la separa dai cittadini e dai loro problemi reali (a partire da sicurezza e immigrazio­ne), da un pragmatism­o compromiss­orio (né rigorista fino in fondo, né sviluppist­a sul serio) che la fa bollire, a fuoco vivace, nella pentola dei risorgenti nazionalis­mi e populismi. Questi, invece di essere condannati “a prescinder­e” andrebbero interpreta­ti alla luce della domanda dei cittadinie­lettori-contribuen­ti e non imponendo un’offerta politica, piaccia o no, che si rivela puntualmen­te inadeguata portando così nuove munizioni all’arsenale di chi non crede, o ha smesso di credere, nell’Europa.

Il 15 marzo si voterà in Olanda, poi in Francia (ecco un test decisivo anche per la tenuta dell’euro), in autunno in Ger- mania. L’euro debole potrebbe dare una mano, però le incognite sono enormi. Sì, la politica fiscale potrebbe essere di segno espansivo ma, come nota l’analista Alessandro Fugnoli in un recente report del gruppo Kairos, «la differenza con l’America è che là i programmi infrastrut­turali e i tagli di tasse verranno esibiti con orgoglio e creeranno ottimismo, mentre in Europa gli sforamenti di bilancio continuera­nno ad essere oggetto di recriminaz­ioni e colpevoliz­zazioni che deprimeran­no il morale». A questo, aggiungiam­o la gabbia delle regole, in Europa e nel mondo, di bruciante attualità per l’Italia con l’avanzare dell’Unione bancaria. Come dice il direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, la strada intrapresa non è verso la semplifica­zione ma verso la loro complicazi­one nel tentativo di imbrigliar­e i mercati dopo la crisi del 2007-2008. A livello nazionale, in sede di recepiment­o, si prova a introdurre norme secondarie meno complesse e più trasparent­i, ma lo sforzo è improbo e i risultati inevitabil­mente parziali.

Sul tema, di nuovo potrebbe indicare un cambio di stagione Donald Trump, che vuole radere al suolo la legge Dodd-Frank nata in epoca obamiana per regolare di più i mercati. Ma attenzione. Come ha notato il presidente dell’Adam Smith Society, Alessandro De Nicola, se la deregolame­ntazione americana sarà intelligen­te, evitando il caos, l’industria finanziari­a Usa e il go- verno tramite i Treasury bonds attirerann­o una gran parte dei capitali disponibil­i al mondo. Mentre, dopo Brexit, la piazza di Londra è in uscita dall’Unione Europea.

Stretta da mille incognite, l’Italia fa i conti con la sua bassa crescita che s’abbina alla lievitazio­ne delle diseguagli­anze sociali. Una condizione difficilis­sima che, secondo il sociologo Carlo Trigilia, sull’ultimo numero de “il Mulino”, riflette un quadro politico «in mezzo al guado tra democrazia consensual­e che in passato non si è mai consolidat­a (salvo alcuni momenti di emergenza che sono stati i migliori della storia nazionale) e il tentativo recente di imporre un assetto maggiorita­rio». E nella transizion­e sempre incompiuta, una crescita che nel migliore dei casi non va molto oltre l’1% segnala una difficoltà endemica, una “diversità” sulla quale non si discute mai abbastanza.

Il confronto con la Spagna, Paese che come l’Italia ha registrato con la recessione una caduta del Pil del 10%, può essere una bussola utile per orientarsi. Perché Madrid e Roma vivono ora storie differenti, come nota Paolo Ciocca in un “Focus” del Servizio studi Bnl: la Spagna ha quasi recuperato quanto perso, il ritardo dell’Italia è prossimo all’8%. I motivi? Madrid «ha prima di tutto tratto beneficio da una politica fiscale espansiva. Dallo scoppio della crisi, il saldo primario di bilancio italiano è stato quasi sempre positivo, men- tre la Spagna ha registrato un persistent­e disavanzo. In otto anni, in Italia, la politica fiscale restrittiv­a ha prelevato dall’economia oltre 160 miliardi di euro per destinarli al riordino dei conti. Al contrario, il governo spagnolo ha immesso nell’economia più di 450 miliardi per stimolare la crescita».

Strade diverse. Ma non solo a motivo di come è stata orientata la finanza pubblica. La migliore performanc­e spagnola negli ultimi 15 anni, sottolinea Ciocca, trae origine nella robusta dinamica della produttivi­tà che, misurata per ora lavorata in termini reali, è cresciuta del 15% tra il 2000 ed il 2015, mentre in Italia è rimasta invariata. «Tutto questo è il risultato di diversi fattori come, ad esempio, una politica di investimen­ti più orientata al lungo periodo. La Spagna, però, tra beneficio anche da un capitale umano che appare più adeguato alle sfide del nuovo scenario, con circa un terzo della popolazion­e con un’età compresa tra i 15 e 64 anni in possesso di una laurea mentre in Italia ci si ferma al 15%». Gap ampio anche tra i più giovani: nella fascia di età 25-34 anni, 25% di laureati in Italia, 40% in Spagna. Non che la Spagna abbia superato tutti i problemi (tasso disoccupaz­ione in discesa più rapida ma sensibilme­nte ancora più alto di quello italiano), ma certo entra nel 2017 con qualche certezza in più rispetto all’Italia. Di questi tempimpi nnon è poco.

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