In Cassazione 4 riti per non cambiare nulla
Qualche giorno fa un’assemblea della Corte di cassazione, indetta per discutere le modifiche al rito civile conseguenti alla legge n. 197 del 2016, ha visto una partecipazione di magistrati molto scarsa. L’accaduto, anche al netto della ormai chiara disaffezione verso rituali sempre meno significativi, può essere interpretato in due modi: è possibile che solo pochi si siano resi conto dell’impatto della riforma sul giudizio civile in Corte? O forse l’assenza è il segno dello scoraggiamento di chi non comprende più il senso del proprio lavoro (una volta, per molti, una vera missione)?
Che ai giudici sfugga il cambiamento del modo in cui verranno trattati i processi è da escludere: non c’è un solo magistrato che non conosca le nuove disposizioni, che non si interroghi circa i loro effetti sulla funzionalità della Corte, che non comunichi la propria perplessità in ordine allo scopo reale della nuova previsione. Dunque, è lecito ipotizzare che la ragione della mancata partecipazione all’assemblea sia il silenzioso, crescente rifiuto di una logica legislativa inadeguata che determinerà un nuovo strappo nella già precaria coerenza del giudizio in Cassazione.
Nell’ultimo quarto di secolo il Codice di procedura civile è stato oggetto di una lunga serie di modifiche: nessuna, tra quelle relative alla Cassazione, è stata sviluppata all’interno di un progetto complessivo e secondo linee strategiche. Nessuna, infatti, è riuscita a rendere il processo civile in Cassazione più efficiente o rapido.
Oggi, elaborata nei due mesi tra un decreto legge che originariamente non la prevedeva e la legge di conversione che invece la contiene, viene varata una riforma che moltiplica e confonde le forme processuali individuandone addirittura quattro: una sommaria, una “semplice”, una pubblica, una davanti alla sezioni unite.
Eppure stiamo parlando della Corte di cassazione, del luogo cioè dove i conflitti nell’interpretazione della legge dovrebbero trovare composizione, dove dovrebbero essere custoditi i limpi- di principi cui i giudici nazionali si atterranno. Stiamo parlando del luogo ove la norma si fa evidente e permette a magistrati ed avvocati (ai cittadini, soprattutto) di essere certi circa la rule of law, la regola della legge che governerà la controversia.
La contraddizione è palese (e stride particolarmente con il nuovo passo di questo Governo nell’affrontare, infine, gli antichi problemi della giustizia): quanti contrasti nasceranno già solo per individuare la tipologia del rito? E a che serve (se non ad introdurre surrettiziamente canali processuali di finta trattazione delle cause) aumentare le configurazioni del processo quando l'intero sistema è già soffocato da inutili complicazioni?
Ogni nuovo cambiamento, in una complessa organizzazione (di prassi e di concetti) che a fati- ca si assesta sul cambiamento precedente, produce instabilità e incoerenza. Il processo, soprattutto in Cassazione, dove la tecnica giuridica prevale sulla rappresentazione del fatto (nella struttura del ricorso, nelle categorie del giudizio, negli effetti di ricaduta sugli orientamenti successivi) è un congegno delicato: degradarlo al rango di fabbrica sommaria di decisioni approssimative non solo tradisce il mandato costituzionale ma fa un danno grave.
Eppure nulla ci impedirebbe, tornando a essere un paese normale, di conformarci alla regola della modernità che, semplicemente, stabilisce per legge i (pochi) casi in cui è dato accesso al giudizio di legittimità. Ne conseguirebbe, per alcuni, una riduzione del fatturato della giustizia. Tutti invece ne guadagneremmo in termini di certezza del diritto ed equilibrio del sistema.
LE PERPLESSITÀ A moltiplicarsi saranno solo le controversie sulle forme possibili da applicare
L’andamento dei procedimenti
La serie storica del movimento dei procedimenti dal 2005 al 2015
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