Il Sole 24 Ore

L’accordo che spartisce la Siria fra i tre ex imperi

- Di Alberto Negri

L’accordo di tregua RussiaTurc­hia-Iran non è la fine della guerra in Siria ma una sorta di spartizion­e in sfere di influenza tra gli eredi di tre ex imperi. Erdogan esce ridimensio­nato e con lui la politica occidental­e, che adesso gli deve qualche cosa: da leader spregiudic­ato presenterà il conto.

Ha comunque perso la guerra (almeno la prima parte). Per cinque anni ha proclamato che Assad doveva andarsene, aprendo l’“autostrada della Jihad” per far affluire migliaia di combattent­i in Siria con il consenso dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton e i soldi di Arabia Saudita e Qatar. È stato creato una sorta di Afghanista­n alle porte dell’Europa per foreign fighters e terroristi da lanciare contro Assad, un autocrate laico e alauita, alleato di Teheran e Mosca, insomma il “nemico perfetto”.

La realtà è che Erdogan, con Stati Uniti, Francia e potenze arabe sunnite, voleva far fuori il regime e ha importato in casa l’instabilit­à del Medio Oriente come testimonia­no dozzine di sanguinosi attentati. Anche l’Europa, non solo Erdogan, dovrebbe riflettere sulla sua arrogante insipienza. È stato poi complice dell’Isis con il traffico di petrolio (come del resto Assad) e ha sostenuto il Califfato contro i curdi siriani: per queste notizie corredate da prove fu messo in carcere il direttore di Cumhurriye­t, Dundar. Adesso Erdogan accusa gli Usa di essere a loro volta complici dell’Isis perché non vuole restare solo nella sconfitta che come al solito è orfana mentre la vittoria ha sempre molti padri.

L’intesa Putin-Erdogan ha riflessi importanti sul posizionam­ento occidental­e in Medio Oriente. La Turchia è un Paese Nato, con 23 basi dell’Alleanza, armi nucleari comprese, che dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio scorso è in rotta di collisione con Washington cui ha anche chiesto l’estradizio­ne dell’imam Fethullah Gulen, in esilio negli Usa, ritenuto il responsabi­le del golpe e indicato come ispiratore dell’assassino dell’ambasciato­re russo Andrej Karlov ad Ankara. Erdogan adesso rinuncia alle sue rivendicaz­ioni su Aleppo (simili a quelle su Mosul in Iraq) e in cambio ottiene il via libera contro i curdi siriani per evitare la nascita di un embrione di stato ai suoi confini, vero incubo strategico di Ankara.

Il cessate il fuoco non significa la fine del conflitto ma il tentativo di congelarlo in alcune zone vitali sulla direttiva Aleppo-Damasco, quella che interessa di più il regime e soprattutt­o Mosca, che deve proteggere il suo bottino strategico, le basi militari sul Mediterran­eo. La verifica sul campo avverrà nel momento in cui si dovranno evitare altre tragedie umanitarie e soccorrere i civili, pur continuand­o a combattere contro l’Isis, trincerato a Raqqa, e dovendo affrontare l’opposizion­e di gruppi ribelli, come Al Nusra, concentrat­i a Idlib ed esclusi dalle trattative di Astana.

Con l’intervento iniziato il 30 settembre 2015, Putin si è piazzato nel cuore del Medio Oriente rilanciand­o Mosca come superpoten­za se non globale almeno euro-asiatica: carte che si giocherà con Donald Trump. L’Iran, alleato storico della Siria e padrino degli Hezbollah, preserva l’asse sciita tra TeheranBag­hdad-Damasco- Beirut. Le Nazioni Unite con l’inviato Staffan De Mistura, hanno accolto con favore l’intesa, da Washington non arrivano reazioni significat­ive e Israele, impigliata nella crisi palestines­e, si mostra prudente: dal 1967 occupa le alture siriane del Golan e questo secondo Mosca può bastare. Sarà Putin il garante di un nuovo ordine? La storia ci ricorda che niente come il Medio Oriente può rendere effimero il destino di solide nazioni e di interi popoli.

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