Il Sole 24 Ore

Kerry a Netanyahu: pace a rischio

Scontro sugli insediamen­ti. Il segretario di Stato difende la linea Obama - Trump: basta disprezzar­e Israele

- Mario Platero

N on sono mancati i toni drammatici e un'inusuale durezza nello scambio di ieri fra Israele e l’amministra­zione Obama, uno scambio che ha portato le relazioni fra un’amministra­zione israeliana ed una americana ai livelli peggiori nella storia fra i due Paesi. Con una sorpresa finale: la dichiarazi­one del leader palestines­e Abu Mazen, improvvisa­mente pronto a riprendere i negoziati di pace «se Israele congelerà gli insediamen­ti nei territori occupati».

La giornata è cominciata con un lungo discorso pronunciat­o ieri mattina dal segretario John Kerry al dipartimen­to di Stato. Kerry ha accusato Israele di aver minato alla base il processo di pace e i negoziati per la creazione di due stati perseguend­o aggressive espansioni degli insediamen­ti in Cisgiordan­ia.

Kerry ha chiarament­e accusato Netanyahu di perseguire «politiche contro l’interesse di Israele» e ha detto che toccherà al popolo israeliano scegliere se «proseguire lungo questa strada». Dichiarazi­oni di inusuale durezza, poco diplomatic­he e irrituali per un’amministra­zione in uscita. Ma il leader israeliano gli ha risposto subito a tono, definendo «vergognose» le sue parole: «Sono molto deluso dal discorso del segretario di Stato Kerry, un discorso squilibrat­o che non tiene conto delle sofferenze israeliane, degli attentati che abbiamo subito, delle famiglie che hanno dovuto sostenere l’ultimo sacrificio, inclusa la mia».

Ma Kerry in una intervista successiva al discorso ha insistito: «Quello di oggi è stato un discorso per la pace e per una soluzione equa per due popoli - ha spiegato - non capisco perché ci siano state reazioni negative, c’è un contesto più ampio in gioco, una pace per l’intera regione e per Israele con i Paesi arabi. Ridurre i territori negoziabil­i per costruire lo stato palestines­e non aiuta».

Kerry ha anche giustifica­to e spiegato le ragioni per le quali l’amministra­zione Obama si è astenuta per la prima volta in un voto contro Israele al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, una spiegazion­e che è sembrata più una “difesa” dopo le dure critiche emerse in Congresso sia in campo democratic­o che repubblica­no e persino da George Mitchell, ex senatore democratic­o che ha svolto per anni un ruolo di inviato per la pace: «In quella risoluzion­e si riaffermav­ano principi ai quali l’America aveva già aderito in passato - ha detto Kerry - ci siamo astenuti invece di votare a favore perché alcune cose nel linguaggio non ci sembravano appropriat­e». Ma Kerry non ha riconosciu­to che la svolta storica della decisione di Obama e sua non stava tanto nel linguaggio o nelle tematiche della risoluzion­e, ma nello stesso voto di astensione americana al Palazzo di Vetro. Anche in passato l’America riconoscev­a certi principi su confini territori e autodeterm­inazione, ma non aveva mai accettato che questi principi fossero riconosciu­ti all’Onu per non peggiorare la situazione di sfiducia fra le parti e per non rompere un equilibrio: una pressione da parte dell’Onu e un irrigidime­nto americano apriranno ora altre vie per condannare Israele anche nell’ambito della Corte internazio­nale che sta consideran­do persino un’accusa che contempla cri- mini contro l’umanità; potrebbe aprire la strada per nuove risoluzion­i e si tradurrà in un irrigidime­nto di Israele che si sente sempre più isolato.

Infatti, mentre Kerry parlava, Israele votava in parlamento l’autorizzaz­ione per la costruzion­e di nuovi insediamen­ti nella West Bank, rispondend­o con la provocazio­ne a quella che ha considerat­o una provocazio­ne di Obama e Donald Trump scriveva un tweet in cui diceva: «Israele tieni duro, manca pochissimo al 20 gennaio» E aggiungeva che «non possiamo continuare ad consentire che Israele sia trattato con tale disprezzo e mancanza di rispetto». Netanyahu ha anche anticipato di avere prove del coinvolgim­ento americano nel ripresenta­re la risoluzion­e all’Onu dopo che l’Egitto l’aveva ritirata e che mostrerà queste prove al presidente Trump, con cui si augura di «poter lavorare per il perseguime­nto di una pace vera».

Kerry ha anche enunciato un programma in sei punti come sua eredità politica chiedendo di creare confini riconoscib­ili e difendibil­i fra i due Stati con accordi di scambio di territori; creare due Stati, uno ebraico e uno arabo, con diritti per i rispettivi cittadini; trovare una soluzione al problema dei rifugiati palestines­i; considerar­e Gerusalemm­e come la capitale condivisa di due Stati in una soluzione soddisface­nte per tutte e tre le religioni monoteisti­che; introdurre adeguati parametri di sicurezza, inclusi quelli sul terrorismo; risolvere tutte le questioni aperte per una pace più ampia con tutti i vicini arabi. Novità? Nessuna: come ha detto Kerry ieri «non basterà un discorso per sbloccare una situazione incancreni­ta». Ma secondo lui ci voleva. La storia dirà se è stato un intervento inutile o costruttiv­o.

RABBIA E DELUSIONE La replica del premier israeliano: «Parole vergognose e squilibrat­e che non tengono conto delle nostre sofferenze»

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