Kerry a Netanyahu: pace a rischio
Scontro sugli insediamenti. Il segretario di Stato difende la linea Obama - Trump: basta disprezzare Israele
N on sono mancati i toni drammatici e un'inusuale durezza nello scambio di ieri fra Israele e l’amministrazione Obama, uno scambio che ha portato le relazioni fra un’amministrazione israeliana ed una americana ai livelli peggiori nella storia fra i due Paesi. Con una sorpresa finale: la dichiarazione del leader palestinese Abu Mazen, improvvisamente pronto a riprendere i negoziati di pace «se Israele congelerà gli insediamenti nei territori occupati».
La giornata è cominciata con un lungo discorso pronunciato ieri mattina dal segretario John Kerry al dipartimento di Stato. Kerry ha accusato Israele di aver minato alla base il processo di pace e i negoziati per la creazione di due stati perseguendo aggressive espansioni degli insediamenti in Cisgiordania.
Kerry ha chiaramente accusato Netanyahu di perseguire «politiche contro l’interesse di Israele» e ha detto che toccherà al popolo israeliano scegliere se «proseguire lungo questa strada». Dichiarazioni di inusuale durezza, poco diplomatiche e irrituali per un’amministrazione in uscita. Ma il leader israeliano gli ha risposto subito a tono, definendo «vergognose» le sue parole: «Sono molto deluso dal discorso del segretario di Stato Kerry, un discorso squilibrato che non tiene conto delle sofferenze israeliane, degli attentati che abbiamo subito, delle famiglie che hanno dovuto sostenere l’ultimo sacrificio, inclusa la mia».
Ma Kerry in una intervista successiva al discorso ha insistito: «Quello di oggi è stato un discorso per la pace e per una soluzione equa per due popoli - ha spiegato - non capisco perché ci siano state reazioni negative, c’è un contesto più ampio in gioco, una pace per l’intera regione e per Israele con i Paesi arabi. Ridurre i territori negoziabili per costruire lo stato palestinese non aiuta».
Kerry ha anche giustificato e spiegato le ragioni per le quali l’amministrazione Obama si è astenuta per la prima volta in un voto contro Israele al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, una spiegazione che è sembrata più una “difesa” dopo le dure critiche emerse in Congresso sia in campo democratico che repubblicano e persino da George Mitchell, ex senatore democratico che ha svolto per anni un ruolo di inviato per la pace: «In quella risoluzione si riaffermavano principi ai quali l’America aveva già aderito in passato - ha detto Kerry - ci siamo astenuti invece di votare a favore perché alcune cose nel linguaggio non ci sembravano appropriate». Ma Kerry non ha riconosciuto che la svolta storica della decisione di Obama e sua non stava tanto nel linguaggio o nelle tematiche della risoluzione, ma nello stesso voto di astensione americana al Palazzo di Vetro. Anche in passato l’America riconosceva certi principi su confini territori e autodeterminazione, ma non aveva mai accettato che questi principi fossero riconosciuti all’Onu per non peggiorare la situazione di sfiducia fra le parti e per non rompere un equilibrio: una pressione da parte dell’Onu e un irrigidimento americano apriranno ora altre vie per condannare Israele anche nell’ambito della Corte internazionale che sta considerando persino un’accusa che contempla cri- mini contro l’umanità; potrebbe aprire la strada per nuove risoluzioni e si tradurrà in un irrigidimento di Israele che si sente sempre più isolato.
Infatti, mentre Kerry parlava, Israele votava in parlamento l’autorizzazione per la costruzione di nuovi insediamenti nella West Bank, rispondendo con la provocazione a quella che ha considerato una provocazione di Obama e Donald Trump scriveva un tweet in cui diceva: «Israele tieni duro, manca pochissimo al 20 gennaio» E aggiungeva che «non possiamo continuare ad consentire che Israele sia trattato con tale disprezzo e mancanza di rispetto». Netanyahu ha anche anticipato di avere prove del coinvolgimento americano nel ripresentare la risoluzione all’Onu dopo che l’Egitto l’aveva ritirata e che mostrerà queste prove al presidente Trump, con cui si augura di «poter lavorare per il perseguimento di una pace vera».
Kerry ha anche enunciato un programma in sei punti come sua eredità politica chiedendo di creare confini riconoscibili e difendibili fra i due Stati con accordi di scambio di territori; creare due Stati, uno ebraico e uno arabo, con diritti per i rispettivi cittadini; trovare una soluzione al problema dei rifugiati palestinesi; considerare Gerusalemme come la capitale condivisa di due Stati in una soluzione soddisfacente per tutte e tre le religioni monoteistiche; introdurre adeguati parametri di sicurezza, inclusi quelli sul terrorismo; risolvere tutte le questioni aperte per una pace più ampia con tutti i vicini arabi. Novità? Nessuna: come ha detto Kerry ieri «non basterà un discorso per sbloccare una situazione incancrenita». Ma secondo lui ci voleva. La storia dirà se è stato un intervento inutile o costruttivo.
RABBIA E DELUSIONE La replica del premier israeliano: «Parole vergognose e squilibrate che non tengono conto delle nostre sofferenze»