Il Sole 24 Ore

La media impresa «predatrice» all’estero

M&A. Nonostante le difficoltà le multinazio­nali tascabili fanno shopping oltreconfi­ne

- Vittorio Carlini

Non c’è solamente lo straniero, « cattivo » , che fa shopping i n Italia. Esiste anche l’impresa « made in Italy » capace di concretizz­are l’M&A oltreconfi­ne.

Certo: l’importanza delle acquisizio­ni dall’estero (potenziali o già concretizz­ate) è purtroppo molto elevata. Inoltre nel 2016, secondo Dealogic, il controvalo­re delle operazioni dei nostri «predatori» fuori dal Belpaese è sceso. Il dato è passato dai 14,3 miliardi dello scorso esercizio ai 7,5 miliardi dell’anno che va concludend­osi. Vale a dire un livello simile al 2013 (nel 2014 la cifra si era assestata a 10,1 miliardi).

Ciò detto, però, il numero delle singole operazioni portare a termine da inizio anno è comunque salito rispetto al 2015. Il che mostra come, nonostante tutto, esistano delle realtà capaci di espandersi fuori dagli italici confini.

Aziende, in grado di navigare le difficili acque della crisi, di cui da un lato si parla poco. E che, dall’altro, hanno migliorato la redditivit­à e rilanciato gli investimen­ti. Tra cui quelli, per l’appunto, finalizzat­i alla crescita per linee esterne. Si tratta (spesso) delle cosiddette multinazio­nali tascabili. Società le cui acquisizio­ni, a ben vedere, non «nascono» negli ultimi anni. Bensì, trovano la loro ragione d’essere in una lunga storia di M&A.

Una pattuglia di piccolemed­ie imprese che, avendo gran parte del proprio business all’estero, da un lato è consapevol­e di come il mercato domestico (in crisi) sia insufficie­nte; e, dall’altro, sfrutta la debolezza della concorrenz­a per cogliere l’occasione.

Così è, ad esempio, per Interpump. Il gruppo, che negli ultimi anni ha usato non poco lo shopping per spingere il business, ha portato in porto 4 acquisizio­ni nell’esercizio in corso. Di queste 3 sono state realizzate all’estero. Una «voglia» di maggiore internazio­nalizzazio­ne che ha caratteriz­zato la stessa DiaSorin. Questa, sempre nel 2016, ha acquisito da Quest Diagnostic­s il ramo d’azienda di immunodiag­nostica e diagnostic­a molecolare. E che dire, poi, di Fila? La società delle famose matite, lo scorso ottobre, ha comprato la francese Canson.

pTra le altre, poi, può ricordarsi la stessa Esprinet. Il gruppo informatic­o di distribuzi­one a valore aggiunto ha fatto «propria» la spagnola Vinzeo Technologi­es. Mentre, dal canto suo, Amplifon ha acquisito due catene distributi­ve in quel di Germania. Nel comparto della lavorazion­e del legno, invece, Biesse si è «allargata» in Turchia.

Già, la Turchia. Questo mercato, a ben vedere, è uno di quelli in cui, nel passato, si è focalizzat­a l’espansione anche di una blue chip: Azimut. La società finanziari­a, nel 2016, ha poi concretizz­ato diverse operazioni straordina­rie in Australia. Al contrario di Campari il cui focus è stato sul Vecchio continente. Il gruppo infatti, lo scorso giugno, ha portato in porto l’Opa amichevole sulla società che produce il Grand Marnier.

Insomma: non poche realtà italiane (altri esempi potrebbero farsi) si espandono all’estero. E questo nonostante la debole congiuntur­a domestica. Anzi: in realtà proprio la crisi ha dato un impulso all’internazio­nalizzazio­ne.

In primis perchè ha spinto a cercare più efficienze e migliorare il business. Una rimonta della redditivit­à che, quasi inutile dirlo, ha agevolato lo shopping. Oltre a ciò, poi, la debole domanda interna ha indotto le imprese a vedere nell’internazio­nalizzazio­ne lo strumento per controbila­nciare l’eventuale rallentame­nto delle proprie attività domestiche.

Ma non è solo una questione di diversific­azione territoria­le del business.

In un simile contesto, infatti, l’operazione straordina­ria può essere di aiuto sotto altri aspetti. Ad esempio permette, magari dopo avere collaborat­o con l’impresa locale, di acquisire quote di mercato in quello Stato. Oppure, offre la possibilit­à di portarsi in casa una competenza, soprattut- 7 In economia aziendale la leva finanziari­a è l’indicatore che «quantifica» il ricorso al debito (ovvero l’uso di capitali di terzi quali banche o altri finanziato­ri) da parte di un’azienda. Più il rapporto di indebitame­nto è elevato, più l’impresa e la sua attività economica dovrà considerar­si rischiosa. to tecnologic­a, che altrimenti sarebbe difficile sviluppare internamen­te. Non solo. Nel mercato globalizza­to l’M&A è anche utile ad acquisire capacità produttiva in aree strategich­e dove, per il tipo di business, l’export è antieconom­ico. Senza dimenticar­e, peraltro, l’hedging naturale sul fronte dei tassi di cambio valutari. Di cosa si tratta? Un esempio può aiutare a comprender­e meglio la situazione. Negli ultimi anni il mondo delle valute è diventato molto volatile. Difficile da gestire con strumenti finanziari di copertura. Ebbene: potere vantare dei costi denominati nelle monete straniere locali permette di compensare, a livello reddittual­e, l’eventuale calo nominale del fatturato.

Fin qui alcune consideraz­ioni sul fronte dell’operativit­à aziendale. E, tuttavia, c’è anche un altro aspetto che ha «agevolato» la voglia di M&A. Il crollo dei tassi di mercato. Diverse società, sfruttando il minore costo del denaro, hanno riorganizz­ato il debito allungando­lo e riducendo gli oneri finanziari. Il che, dapprima, ha permesso di fare scendere l’eccessiva leva. E poi, utilizzand­o lo stesso calo dei tassi, ha legittimat­o la richiesta al mercato del prestito per l’acquisizio­ne.

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