Quell’anomalia che nessuno vuole vedere
«Quando ho iniziato questo lavoro, come direttore di filiale, andavo a trovare i miei clienti imprenditori in casa loro. E quando mancava un quadro alla parete, capivo che avevano problemi finanziari». Questo racconto risale all’era preistorica dell’attività tradizionale del credito, ma il concetto di fondo resta: nel concedere un prestito, la banca commerciale conosce a fondo la controparte e si espone a garanzie tangibili. L’era dell’investment banking affianca all’erogazione del credito tutt’altra operatività come il trading, la finanza strutturata, i derivati over-thecounter. I bilanci delle banche d’investimento si gonfiano così di attività finanziarie molto complesse, talmente opache che per quantificarne il rischio di controparte e di credito, di liquidità e di mercato, occorrono modelli interni con algoritmi sofisticati. Modelli unici.
Per garantire la stabilità del sistema bancario, regolatori e vigilanza sembrano accanirsi come noto sul capitale a fronte dei rischi sui crediti deteriorati concessi a imprese e famiglie, dunque sull’attività più tradizionale e meno oscura delle banche che è anche quella più propria agli istituti italiani. È impresa molto più difficile riuscire ad applicare lo stesso metro, ovvero la stessa rigidità e severità, ai portafogli delle attività finanziarie cosiddette di “terzo livello”, quelle prive di prezzo di mercato e proprie del mondo dell’investment banking popolato da colossi inglesi, tedeschi e francesi.
La Commissione europea, che ha sfornato la direttiva e il regolamento sui requisiti patrimoniali delle banche (CRR e CRD IV), la Bce e il suo braccio di vigilanza bancaria europea, l’Eba, la Bri, e le banche centrali nazionali, sono tutti alle prese da almeno due decenni (Barings fallì nel 1995) con la stesura di requisiti prudenziali patrimoniali adatti agli strumenti di livello 3. La complessità della materia è emersa in maniera schiacciante nell’ottobre del 2014, quanto l’Asset Quality Review della Bce introdusse un esercizio dedicato alla ricerca del fair value degli strumenti Level 3, espressamente definiti come «attività illiquide il cui calcolo di prezzo si basa su parametri non riscontrabili sul mercato perchè costruiti con modelli interni della banca». All’epoca la revisione approfondita della qualità degli asset si limitò individuare i problemi del Level 3, senza sottoporre queste speciali attività a stress e scenari avversi.
Gli strumenti del livello 3, titoli o contratti, non sono standardizzati ma su misura, non vengono negoziati su Borse o piattaforme regolamentate e non hanno prezzi di mercato trasparenti. In questo pozzo finiscono alcuni tipi di cartolarizzazioni e
LA PROPORZIONE I regolatori sembrano accanirsi sul capitale ma non applicano la stessa rigidità ai portafogli delle attività di terzo livello
CDO, i derivati più complessi e negoziati O-T-C ma anche prestiti a controparti di settori estremamente specializzati come i trasporti marittimi. La ricerca del “fair value” di queste posizioni e attività, la valutazione del rischio controparte, del basis risk, della non-linearità e illiquidità, è ora divenuta indispensabile ai fini della vigilanza prudenziale, almeno tanto quanto i requisiti patrimoniali agganciati ai portafogli di non-performing loans e di crediti incagliati o con inadempienze probabili.
Si tratta di attività finanziarie illiquide, come gli strumenti derivati over-the-counter e alcune cartolarizzazioni, che non hanno un mercato di riferimento che ne stabilisca il valore. Queste attività non vengono negoziate su Borse o piattaforme regolamentate e non hanno prezzi di mercato trasparenti e sono proprie del mondo dell’investment banking popolato da colossi inglesi, tedeschi e francesi. La Bce le definisce «attività illiquide il cui calcolo di prezzo si basa su parametri non riscontrabili sul mercato» perchè costituiti da modelli interni della banca.