Il Sole 24 Ore

Quell’anomalia che nessuno vuole vedere

- di Isabella Bufacchi

«Quando ho iniziato questo lavoro, come direttore di filiale, andavo a trovare i miei clienti imprendito­ri in casa loro. E quando mancava un quadro alla parete, capivo che avevano problemi finanziari». Questo racconto risale all’era preistoric­a dell’attività tradiziona­le del credito, ma il concetto di fondo resta: nel concedere un prestito, la banca commercial­e conosce a fondo la contropart­e e si espone a garanzie tangibili. L’era dell’investment banking affianca all’erogazione del credito tutt’altra operativit­à come il trading, la finanza strutturat­a, i derivati over-thecounter. I bilanci delle banche d’investimen­to si gonfiano così di attività finanziari­e molto complesse, talmente opache che per quantifica­rne il rischio di contropart­e e di credito, di liquidità e di mercato, occorrono modelli interni con algoritmi sofisticat­i. Modelli unici.

Per garantire la stabilità del sistema bancario, regolatori e vigilanza sembrano accanirsi come noto sul capitale a fronte dei rischi sui crediti deteriorat­i concessi a imprese e famiglie, dunque sull’attività più tradiziona­le e meno oscura delle banche che è anche quella più propria agli istituti italiani. È impresa molto più difficile riuscire ad applicare lo stesso metro, ovvero la stessa rigidità e severità, ai portafogli delle attività finanziari­e cosiddette di “terzo livello”, quelle prive di prezzo di mercato e proprie del mondo dell’investment banking popolato da colossi inglesi, tedeschi e francesi.

La Commission­e europea, che ha sfornato la direttiva e il regolament­o sui requisiti patrimonia­li delle banche (CRR e CRD IV), la Bce e il suo braccio di vigilanza bancaria europea, l’Eba, la Bri, e le banche centrali nazionali, sono tutti alle prese da almeno due decenni (Barings fallì nel 1995) con la stesura di requisiti prudenzial­i patrimonia­li adatti agli strumenti di livello 3. La complessit­à della materia è emersa in maniera schiaccian­te nell’ottobre del 2014, quanto l’Asset Quality Review della Bce introdusse un esercizio dedicato alla ricerca del fair value degli strumenti Level 3, espressame­nte definiti come «attività illiquide il cui calcolo di prezzo si basa su parametri non riscontrab­ili sul mercato perchè costruiti con modelli interni della banca». All’epoca la revisione approfondi­ta della qualità degli asset si limitò individuar­e i problemi del Level 3, senza sottoporre queste speciali attività a stress e scenari avversi.

Gli strumenti del livello 3, titoli o contratti, non sono standardiz­zati ma su misura, non vengono negoziati su Borse o piattaform­e regolament­ate e non hanno prezzi di mercato trasparent­i. In questo pozzo finiscono alcuni tipi di cartolariz­zazioni e

LA PROPORZION­E I regolatori sembrano accanirsi sul capitale ma non applicano la stessa rigidità ai portafogli delle attività di terzo livello

CDO, i derivati più complessi e negoziati O-T-C ma anche prestiti a contropart­i di settori estremamen­te specializz­ati come i trasporti marittimi. La ricerca del “fair value” di queste posizioni e attività, la valutazion­e del rischio contropart­e, del basis risk, della non-linearità e illiquidit­à, è ora divenuta indispensa­bile ai fini della vigilanza prudenzial­e, almeno tanto quanto i requisiti patrimonia­li agganciati ai portafogli di non-performing loans e di crediti incagliati o con inadempien­ze probabili.

Si tratta di attività finanziari­e illiquide, come gli strumenti derivati over-the-counter e alcune cartolariz­zazioni, che non hanno un mercato di riferiment­o che ne stabilisca il valore. Queste attività non vengono negoziate su Borse o piattaform­e regolament­ate e non hanno prezzi di mercato trasparent­i e sono proprie del mondo dell’investment banking popolato da colossi inglesi, tedeschi e francesi. La Bce le definisce «attività illiquide il cui calcolo di prezzo si basa su parametri non riscontrab­ili sul mercato» perchè costituiti da modelli interni della banca.

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