L’Opec regala al petrolio l’anno migliore dal 2009
Il Brent, a minimi pluriennali in gennaio, recupera oltre il 50% a 56 $
Aveva iniziato il 2016 precipitando ai minimi da 13 anni, l’ha concluso con la performance più brillante dal 2009: un rialzo del 52%. Per il petrolio quello che volge al termine è stato un anno davvero movimentato. È finito all’insegna dell’ottimismo, con il Brenta 56,82 dollari al barile – lontano dai livelli stellari di un tempo, ma comunque raddoppiato da gennaio–e l’ aspettativa di ulteriori aumenti di prezzo nei prossimi mesi. Gli hedge funds chiudono l’anno con la maggiore esposizione rialzista nella storia.
A risvegliare l’ottimismo nel settore, dopo due anni di crisi pesantissima, è stata soprattutto l’Opec: l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, più volte data per morta, è riuscita a ricompattarsi deliberando il primo taglio di produzione da 8 anni a questa parte. Non solo. Per la prima volta da 15 anni ha portato dalla sua parte anche la Russia e altri dieci Paesi esterni al gruppo, con cui si è impegnata a ridurre le estrazioni di greggio di oltre 1,7 milioni di barili al giorno a partire da Capodanno. Se la promessa sarà mantenuta – e in assenza di imprevisti, il che è tutt’altro che scontato – il surplus di offerta che finora ha schiacciato le quotazioni del barile dovrebbe sparire nel giro di pochi mesi.
Il percorso compiuto dall’Opec per riprendere in mano la situazione, con una completa inversione delle politiche adottate a novembre 2014, è stato lungo e tortuoso. L’andamento dei prezzi del greggio nel corso dell’anno ricalca gli alti e bassi dei faticosi negoziati che hanno portato all’accordo finale, dimostrando come l’Organizzazione (con l’aiuto della Russia)abbia affinato l’arte di indirizzare i mercati con le parole, prima ancora che coi fatti.
Il primo tentativo di intesa – all’epoca solo per un congelamento della produzione – era stato avvia- to a febbraio, ma era poi naufragato all’ultimo minuto il 17 aprile a Doha per volere dell’Arabia Saudita: Riad non aveva accettato di compiere sacrifici senza la collaborazione dell’Iran, che invece insisteva per recuperare l’output perduto per le sanzioni internazionali.
L’avvicinamento tra sauditi e russi ha in seguito permesso un salto di qualità nelle trattative: dal congelamento si è passati a negoziare un taglio produttivo. E grazie anche alla mediazione degli algerini, il 28 settembre è riuscita a darsi mettere d’ accordo tutti i suoi membri: le estrazioni sarebbero stateridotte. La decisione di principio, presa ad Algeri, ha richiesto altri due mesi di braccio di ferro per ripartire le quote produttive tra i membri dell’Opec e per trovare un coordinamento con i Paesi non Opec. Le dicussioni sono arrivate pù volte sull’orlo del collasso, ma due appuntamenti a Vienna – il primo il 30 novembre e il secondo l’11 dicembre – alla fine hanno suggellato l’intesa. Ora si tratta di applicarla: sfida non facile, vista la scarsa disciplina dimostrata in passato da molti Paesi Opec e dalla Russia, che aveva già preso impegni analoghi senza mai rispettarli. Stavolta ci sono rigidi meccanismi di controllo e soprattutto c’è una forte motivazione al rispetto delle regole: dopo oltre due anni di caduta dei prezzi del petrolio, le finanze dei produttori sono allo stremo. Restano però diverse incognite.
La produzione di Libia e Nigeria, che l’Opec ha esonerato dai tagli, è in recupero e rischia di accelerare ulteriormente, costringendo il resto del gruppo a sacrifici maggiori. Intralci ancora più seri rischiano di arrivare da fattori su cui l’Opec non ha controllo. Negli Usa lo shale oil, incoraggiato dal rialzo dei prezzi, si è già rimesso in moto: oltre 200 trivelle sono tornate in funzione da maggio e la produzione è risalita di 300mila barili al giorno dai minimi di luglio (a 8,8 milioni di bg). Molti osservatori sono cauti sui futuri sviluppi, ma Citigroup pronostica il ritorno di altri 500mila bg se il greggio risale a 60 $, Macquarie addirittura giudica possibile un balzo di un milione di barili al giorno.
Anche la tenuta della domanda petrolifera solleva dubbi: in Cina ci sono segnali che la sua crescita potrebbe rallentare. Infine c’è il potenziale influsso negativo del dollaro forte, che riguarda tutte le materie prime. Il consensus di 29 analisti interpellati da Reuters non si attende un rally stratosferico per il petrolio: la previsione media per il Brent nel 2017 è 56,90 dollari.
OUTLOOK PRUDENTE Sul rally gravano molte incognite: dalla disciplina nei tagli di produzione al recupero dello shale oil, alla tenuta della domanda